Tita Pordon, l’americano di San Vito alle Olimpiadi

SAN VITO DI CADORE. In una mattina d’estate degli anni Cinquanta, dopo aver finito di falciare l’erba sui prati attorno casa, un ragazzo di sedici anni prende i lunghi sci di legno, se li mette in spalla e dalla sua casa di San Vito comincia a salire verso il rifugio San Marco. Poi ancora su, verso Forcella Piccola. Poi giù, verso il rifugio Galassi, prima dell’approdo al ghiacciaio inferiore dell’Antelao.
Qui, pianta i bastoni dei fagioli che aveva portato qualche giorno prima e poi scende lungo la lingua di ghiaccio, guizzando tra i “pali”.
Poi risale e ridiscende. Una, due, tre volte, a seconda del tempo e della forza che gli sono rimasti: allenamenti di gigante e di slalom. Che servivano per preparare le gare invernali ma che, prima di tutto, erano in sé «una soddisfazione enorme che non solo ti riempiva l’animo ma che, per così dire, si incarnava in ogni fibra del tuo corpo».
Quel ragazzo è “Tita Pito”, all’anagrafe Giovanni Battista Pordon (“Pito” è il soprannome di famiglia), classe 1939, “americano” di San Vito di Cadore. E quella che vi raccontiamo nelle righe che seguono è la sua storia.
Una storia che si dipana tra la Valle del Boite e Kitzbühel, tra Wengen e il Nevada. Passando per Squaw Valley, l’ Olimpiade del destino. Una storia che parte proprio da quegli allenamenti estivi sul ghiacciaio inferiore dell’Antelao, in anni nei quali lo sci era eroico per davvero.
«Avevo una passione profonda per lo sci», spiega Pordon che oggi si divide tra gli States e la sua San Vito. «Avevo, avevamo, una voglia di sci immensa, un entusiasmo che ci portava a salire da San Vito al ghiacciaio inferiore dell’Antelao per allenarci d’estate. Una passione che al giorno d’oggi non vedo più nei ragazzi, né in Italia né in America».

Pordon, quando ha iniziato a sciare?
«A quattro o cinque anni. Le prime gare le ho fatte con la Polisportiva Caprioli di San Vito, società che era nata immediatamente dopo la seconda guerra mondiale (1947, ndr). Ci allenavamo tutti i giorni, sui pendii vicino a casa, naturalmente salendo a piedi. Gli impianti di risalita allora erano l’eccezione, non la regola. Poi, insieme a Natalino Menegus e altri, sono approdato al cento addestramento per gli atleti Juniores di Cortina: gli ampezzani erano bravissimi e a persone come Albino Alverà devo tantissimo. Gli sci erano parte di me: alla sera li mettevo sotto il letto, li volevo sentire vicino».
Le prime soddisfazioni arrivarono presto.
«Me la cavavo abbastanza bene. Ciò che mi piaceva di più era la discesa: la velocità è la cosa che mi esaltava. Nel 1955 il Veneto mi selezionò per i Campionati italiani Juniores di Bardonecchia: mi sembrava di essere stato convocato per le Olimpiadi. Andammo in Piemonte in treno e il viaggio fu uno stupore continuo: non pensavo davvero che il mondo potesse essere così grande. Prima, al massimo, da San Vito ero arrivato fino a Cortina o a Calalzo».

Presto arrivò anche la maglia azzurra.
«Vincevo regolarmente: ricordo ad esempio i successi ottenuti a Cortina ed Arabba. Ma anche il campionato regionale di Cencenighe, una gara per la quale l’amico Giorgio De Lazzer mi prende in giro benevolmente ancora oggi: ha perfino inciso in un tagliere in legno celebrativo il fatto che io sono detentore del record del tracciato. Il record è mio sì, perché di gare nella località agordina, dopo quella, non se ne disputarono più. Facezie a parte: me la cavavo piuttosto bene, specialmente in ciò che più amavo, la libera. Nel 1958 entrai in nazionale B e nella stagione 1958-1959 cominciai a gareggiare a livello internazionale».
Nel 1959 fu protagonista di una grandissima prestazione sulla mitica 3 Tre di Madonna di Campiglio. Una gara corrispondente alla Coppa del Mondo (che nacque ufficialmente qualche anno dopo).
«In quella discesa partii con il pettorale 52 e arrivai quarto (miglior risultato in carriera per “Tita”, ndr) alle spalle dell’austriaco Karl Schranz, dello svizzero Willy Forrer e dell’amico ampezzano Bruno Alberti. Da Bruno, di cinque anni più vecchio di me, ho imparato tanto. Quel 1959 fu importante anche perché entrai nelle Fiamme Oro di Moena e fui promosso in nazionale A».
L’anno dopo si realizza il sogno di ogni atleta: le Olimpiadi.
«Il cammino verso Squaw Valley iniziò con la preparazione estiva: facemmo un raduno estivo a Riccione e questo collegiale lo ricordo in maniera particolare perché era la prima volta che vedevo... il mare. Nelle gare di preparazione, a inizio inverno, andai abbastanza bene ma la certezza di andare negli Stati Uniti la ebbi solo poche settimane prima: che emozione quando sentii pronunciare il mio nome tra quelli dei convocati. E che emozione quando la Colmar, in un albergo di Milano, ci prese le misure per l’abbigliamento. E che emozione quando partii da San Vito in treno: c’era tutto il paese a festeggiarmi».

Squaw Valley rappresentò, al contempo, l’apice e la conclusione della sua carriera. Che cosa ricorda di quei giorni?
«Era metà febbraio e il giorno prima della discesa si svolse una prova cronometrata. Arrivai terzo o quarto, ma di certo primo degli azzurri. Dopo la prova ci mettemmo a provare la sciolina. Scendemmo lungo il tracciato e io fui ingannato da un’ombra: finii in un fosso, mi ruppi clavicola, polso e femore. Rimasi in coma per due-tre giorni. La mia carriera, di fatto, finì lì perché da quell’incidente non mi ripresi più. Cercai di fare qualche gara negli anni successivi ma la gamba non reggeva come avrebbe dovuto per competere ad alti livelli».
A Squaw Valley iniziò una nuova vita.
«Da Squaw Valley, California, mi portarono in ospedale a Reno, Nevada. Non potevano operarmi e la gamba rimase in trazione per due mesi. Per la mia degenza, le autorità italiane erano riuscite a farmi avere un’interprete: Era una studentessa, sua nonna veniva da Lucca e lei parlava italiano meglio di me: un anno dopo sarà mia moglie».
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