Le sette meraviglie di Linda «E l’hockey non mi piaceva»

VAL DI ZOLDO
Difficile non pensare a Linda De Rocco, quando si parla di hockey femminile. A 34 anni, la zoldana si diverte ancora sul ghiaccio. Ora vive a Vittorio Veneto, ma ha disputato l'ultima stagione con il Dobbiaco e di ritirarsi non ne ha proprio voglia. Anche perché, ai Giochi di Milano - Cortina 2026 un pensierino lo sta facendo. Sarebbe tra l’altro la seconda partecipazione personale alle Olimpiadi, dopo Torino 2006.
De Rocco, a quando risalgono i primi pattini?
«A tre anni. Mia mamma mi portò allo stadio di Forno di Zoldo. In realtà, iniziai il percorso sportivo con l’artistico, però non era affatto la mia passione. Così a sei, ho preso la stecca in mano e ho iniziato a colpire il disco».
Una scelta probabilmente insolita per una ragazza.
«In Zoldo però l’hockey era sentito e praticato da tante persone. In più, vedevo mio cugino andare con entusiasmo agli allenamenti. Una volta mio zio mi disse di accompagnarlo. “Magari ti diverti anche tu”».
Amore a prima vista?
«Macché. Non mi piaceva per nulla, soprattutto all’inizio. Ero l’unica bambina, in una squadra tutta maschile. Con il passare del tempo, però, mi sono fatta valere e il coinvolgimento nei confronti dell'hockey è aumentato. E così, tra una cosa e l’altra, sono qui a parlare ancora da giocatrice».
Le tappe della carriera?
«Ho giocato con lo Zoldo fino a 13 anni. Poi la scelta è ricaduta sull’Agordo dove, nel 2000-2001, ho subito conquistato il mio primo scudetto».
Non l’unica coccarda tricolore indossata sulla maglia.
«No, per fortuna in bacheca personale ce ne sono altri. Campionessa d’Italia sette volte, l’ultima nella stagione 2018-2019 con l’Alleghe».
Forse il titolo più bello? «Lo definirei memorabile. Avete presente il concetto di perfezione? Credo lo si possa applicare all’intera annata. Già da due anni arrivavamo a giocarcela contro il fortissimo Bolzano all’ultimo atto, però erano sempre più forti. Eppure, fin dalla preparazione avvertivamo un’insolita magia. Il gruppo affiatato, l’allenatore Cristian Schivo abile nel mantenere unita la squadra e farla esprimere al meglio e così via. In generale l’ambiente biancorosso è stato fantastico. E noi siamo state bravissime, perché altrimenti non riesci ad interrompere nove anni di dominio ».
Peccato sia stato un punto d’arrivo, e non di partenza.
«La squadra si è sfaldata la scorsa estate, complice in particolare l’impossibilità logistica per alcune ragazze di proseguire in riva al lago».
Lei però ha continuato.
«Volevo fermarmi in realtà, salvo poi farmi convincere dalle mie compagne e dalla società del Dobbiaco».
Coloriamo l’intervista d’azzurro?
«Volentieri. Lo stesso anno del passaggio all’Agordo, è arrivata la prima convocazione in Nazionale».
Non l’unica direi.
«Quindici Mondiali disputati, otto anni da capitano, ori e argenti iridati nelle varie categorie. Inoltre, non pochi premi alla carriera ricevuti. A proposito, in azzurro la più bella soddisfazione è piuttosto recente. Parlo del mondiale vinto ad Asiago nel 2018, grazie al quale siamo saliti in Division A, la categoria che può lanciarti in Top Division. Traguardo mai raggiunto dalla nazionale femminile italiana».
E poi ci sono le Olimpiadi di Torino 2006.
«Cosa dire, se non che i Giochi rappresentano il sogno di ogni atleta, la massima aspirazione. Lo puoi esaudire però solo attraverso sacrifici, buona volontà e tanta, tanta passione».
I suoi ricordi dell’esperienza?
«Avevo vent’anni e forse non ero del tutto consapevole di cosa stavo vivendo. Magari ora mi renderei maggiormente conto di cosa significhi. Ad ogni modo, conservo ricordi favolosi. Penso ad esempio all’entrare allo stadio assieme al team italiano davanti a milioni e milioni di spettatori collegati da tutto il mondo per la cerimonia d'apertura, oppure la partita d’esordio contro le poi campionesse olimpiche canadesi».
Mi scusi, ma tra sei anni ci sarebbe l’occasione di viverla con più consapevolezza l'Olimpiade.
«Milano - Cortina è in programma quando avrò 40 anni. Perché no? Lascio la porta aperta, non escludo a priori di non esserci. Lascerei comunque più minuti alle giovani».
A proposito, le compagne di squadra del cuore?
«Ne ho conosciute tante davvero. Cito le amiche di una vita, Federica Zandegiacomo e Silvia Toffano».
Il dopo hockey giocato invece?
«Una volta concluso il corso base di allenatore, ho iniziato a frequentare il primo livello. Sarà perché i miei allenatori mi hanno lasciato sempre ottime impressioni. Vorrei restare in questo mondo, magari guidando anche una squadra di ragazzi».
E la sua vita attuale fuori dal ghiaccio?
«Esigenze lavorative mi hanno portato a trasferirmi dalla mia amata montagna a Vittorio Veneto, lavorando io a Conegliano. Ho diverse passioni, come la corsa in montagna e le escursioni, ma a volte sto… più tranquilla ed esco semplicemente con gli amici».
Cosa ha di speciale per lei l’hockey?
«Parliamo dello sport più bello del mondo. È velocità, tattica, fisicità, esplosività. Secondo me qualità che, in un mix così perfetto, non si trovano in altre discipline. Poi è gioco di squadra. Significa dunque avere obiettivi comuni, lavorare in sinergia con altre persone. Una scuola di vita». —
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi