Una città fascista solo per interesse (ma tiepida e divisa)

Un accurato studio di Chiara Saonara rivela la fragilità dell’adesione al regime

di Nicolò Menniti-Ippolito

Si potrebbe partire dalla fine. Dalle parole dell’ultimo federale fascista a guerra appena iniziata. Si chiamava Eugenio Bolondi, non aveva neppure trent’anni e veniva da fuori. E già questo qualcosa vuol dire: Padova non era in grado di esprimere un federale. Ma interessante è quello che il nuovo federale scrive al segretario nazionale del Partito Fascista, Adelchi Serena nel 1941, dopo poche settimane di permanenza a Padova. Gli racconta che da anni qualche migliaio di iscritti al partito fascista non ritira la tessera, che alcune sedi del partito sono quasi abbandonate, che la Chiesa è molto forte in città e provincia con le sue organizzazioni, che permane un gruppo di potere demo-massonico, «largamente influenzato dai giudei», che i fascisti locali sono divisi per la tendenza degli agrari a badare solo ai loro interessi, e così via. E’ una immagine che riassume, per bocca del fascismo stesso, alcuni dei tratti caratterizzanti della Padova fascista, ora raccontati da Chiara Saonara in un volume Una città nel regime fascista. Padova 1922-1943 (Marsilio, p.469) appena presentato alla Sala degli Anziani dall’autrice, dagli storici Angelo Ventura e Luigi Ganapini, dal sindaco Flavio Zanonato e da Antonio Finotti della Fondazione Cassa di Risparmio che insieme all’ Istituto Veneto per la Storia dell Resistenza ha sostenuto la pubblicazione. Ne emerge l’immagine di una città tiepida verso il fascismo, che si accoda ubbidiente, ma sembra più utilitarista che convinta nella sua adesione; per una serie di motivi che Chiara Saonara ricostruisce con precisione. Il primo è la frattura interna al movimento fascista padovano, che dura per tutto il ventennio. Il fascismo agrario guidato da Augusto Calore è forte e decisamente conservatore. Fa gli interessi dei proprietari, litiga con i sindacati fascisti, non riconosce gli accordi coi braccianti, è assolutamente estraneo alla pretese rivoluzionarie e modernizzatrici degli squadristi provenienti dal combattentismo come Secondo Polazzo. Due anime inconciliabili che segneranno la fragilità del fascismo padovano, che sentirà il bisogno, per cercare equilibrio, di appoggiarsi spesso su fascisti tiepidi o di comodo. Per esempio il primo podestà dopo l’inizio del regime vero e proprio è il conte Francesco Giusti del Giardino, arruolato in fretta nelle file fasciste per dare un senso di stabilità alla città. E questa è la seconda caratteristica del fascismo padovano: un legame ambiguo con le vecchie classi dirigenti. Se il fascismo cerca di consolidarsi in città spolverando vecchi nomi, i vecchi nomi abbandonano in fretta i vecchi partiti di appartenenza, cattolico e liberale, per avvicinarsi al nuovo potere. E’ il caso del conte Leopoldo Ferri, dell’avvocato Antonio Morassutti, del commendatore Giuseppe Solitro, di nobili, imprenditori, professionisti docenti universitari pronti a convertirsi al Partito Nazionale Fascista con grande dispetto, tra l’altro, degli squadristi della prima ora, che in alcuni casi ne otterranno l’esautorazione e l’espulsione senza mai tuttavia sradicare la pianta. Una pianta, secondo i fascisti, che ha le sue radici nella Società del Casino Pedrocchi, il tempio dei maggiorenti della città che il fascismo solo faticosamente e non definitivamente riesce ad espugnare. Un terzo elemento di fragilità del fascismo padovano è la forza del cattolicesimo. All’inizio, finché il vescovo è Luigi Pellizzo la chiesa sembra decisamente osteggiare il fascismo montante, poi con Elia Dalla Costa inizia la lunga stagione dell’accomodamento, resa ancora più solida dalla firma del concordato. Eppure i fascisti sentono che la chiesa li sostiene politicamente, ma rappresenta un potere a se stante, che agisce magari in modo subordinato, ma con una propria identità, una propria organizzazione. Delle istituzioni cittadine, insomma, solo l’Università sembra essere pienamente fascistizzata. L’antifascismo vero ha un buon radicamento negli anni della ascesa al potere del fascismo, poi è stroncato, anche se qualche noto antifascista continua ad esserci. Per esempio il vecchio Giulio Alessio, che ancora a novant’anni viene minacciato dai fascisti. Nel plebiscito del 1929 Padova, per esempio, riserva una brutta sorpresa al regime. Su 19 mila votanti i no sono 1562, mentre in provincia sono poco più di 1200 su 97 mila. Ma sarà solo a guerra iniziata che l’antifascismo emergerà con consistenza con figure come Concetto Marchesi, Enrico Opocher, i vecchi cattolici come Mario Saggin e Umberto Merlin, Meneghetti. Chiara Saonara non esplicita giudizi, ma l’impressione è che a Padova il modello totalitario non riesca realmente ad imporsi, anche se non mancano manifestazioni di massa, entusiasmi per Mussolini e tutto il resto. E la lettura dei molti documenti che accompagnano il testo (informative e relazioni di provenienza fascista) restituisce il disagio stesso di un potere meno sicuro di quanto vorrebbe apparire.

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