Vecchiato: «Pensavo di arrivare da giocatore»

BELLUNO. Quattro stagioni, 153 panchine, 235 punti conquistati, tre volte quarto in classifica e una volta sesto. L’era Vecchiato si potrebbe riassumere solamente leggendo questi numeri. Dalla lotta per la salvezza il Belluno è passato in una sola annata a combattere per i playoff e raggiungerli per tre volte consecutive. E sfiorarli per una quarta, dove i gialloblù si sono dovuto arrendere solamente ad una innumerevole serie di infortuni che hanno piegato la rosa di Piazzale della Resistenza. Roberto Vecchiato è arrivato al Belluno nell’estate 2013, un mese dopo aver appeso le scarpe al chiodo, e dopo aver avuto la benedizione del cda gialloblù, ha preso in mano una squadra, si collaudata, ma a cui lui è stato capace di dare la propria impronta, una mentalità vincente, un gioco offensivo, divertente e a volte spregiudicato. Non un chiacchierone, ma con le idee ben chiare, il tecnico trentino ha conquistato l’ambiente con la propria serietà, con il suo fare calcio ma soprattutto con i risultati, che hanno convinto praticamente tutti, anche chi all’inizio aveva manifestato diffidenza per la mossa della dirigenza di mandare via Roberto Raschi, allenatore bellunese autore di due salvezze consecutive, per affidare la guida ad una figura esterna.
«Quel pomeriggio stavo passeggiando per Trento quando ho ricevuto la chiamata di Augusto Fardin che mi comunicò di avermi trovato un contatto per andare al Belluno - racconta Vecchiato - subito manifestai al direttore il mio entusiasmo per l’idea di poter chiudere la mia carriera da calciatore a Belluno, una piazza importante per la categoria. Una sua imprecazione mi fece capire che non si trattava di questo, voleva che andassi a Belluno per allenare, non per giocare. Non ho esitato, ho detto subito di si».
Quando sei sbarcato in Piazzale della Resistenza, immaginavi che avresti potuto fare un percorso del genere?
«Quando inizi qualcosa speri sempre di fare bene, poi non ci sono mai certezze - racconta Vecchiato - sono arrivato per provare a stupire dove fino a poco prima si festeggiava per una salvezza. In questi anni, insieme alla società, lo staff tecnico e i tifosi, il Belluno è diventato una delle realtà più forti del girone».
Chiunque sarà il tuo successore sulla panchina gialloblù, gli lasci un’eredità pesante. Da cosa deve ripartire il Belluno per restare sui livelli di questi ultimi anni?
«Sicuramente deve ripartire dalla solidità della società e dal gruppo di giocatori bellunesi che sono l’ossatura di questa squadra. La certezza però è che la forza di questa squadra è la società. Non spetta a me dire i cambiamenti da fare, non posso e non voglio esprimermi, per questo c’è un direttore sportivo affiancato da persone capaci».
Qual è un giocatore che non conoscevi e che ti ha stupito in questi quattro anni?
«Potrei dirne più di uno ma voglio menzionare Sebastiano Sommacal che è stato meno citato di altri ma che è stato capace di garantire un ottimo rendimento ogni stagione. E’ un ragazzo eccezionale, educato, attaccato ai colori del Belluno e con un’ottima cultura del lavoro. È un giocatore che è stato magari premiato meno in questi anni ma che ha dato tantissimo ed è uno dei protagonisti indiscussi di questo gruppo».
Qual è il ricordo più bello di queste quattro stagioni?
«Ne ho veramente tantissimi, ma uno che non mi scorderò mai è l’abbraccio che ci siamo dati io, Ivan Da Riz e Paolo Polzotto al termine della vittoria ad Este dove avevamo un solo risultato a disposizione. È stato un gesto liberatorio, in senso positivo. Un altro bel ricordo è anche la vittoria nel derby di quest’anno con sorpasso in classifica e il recupero di dodici punti sui cugini».
La vittoria più bella?
«Quella a Sacile in diretta su Rai Sport. Per tanti motivi. Per i tanti ex presenti in campo, per l’errore dal dischetto del Cobra nel primo tempo e per come la vittoria è arrivata proprio con un suo gol fantastico nel finale».
Il ricordo più brutto?
«A dicembre un tifoso mentre uscivamo dal campo disse che era finito un ciclo. Sono una persona permalosa e questa affermazione non l’ho accettata e mi sono detto che il Belluno avrebbe fatto ancora tanti punti. Quella frase mi aveva colto di sorpresa ma allo stesso tempo mi era servita perché mi aveva spronato e dato motivazioni per dare ancora di più».
Cosa ti lascia Belluno e il Belluno?
«Questa città mi ha dato tantissimo, mi sono trovato bene con tutti, dai giovani ai più anziani, ho incontrato persone cordiali e gentili. I primi tempi molti erano diffidenti verso di me, giustamente, dopo hanno riconosciuto le belle cose che siamo riusciti a fare. Negli ultimi quattro anni la mia vita è stata a Belluno e ovviamente ora cambierà. Mi mancheranno diverse cose, anche quelle più semplici come bere un caffè al bar e chiacchierare con le persone. Poi ovviamente la squadra e le persone con cui ho lavorato in questi quattro anni».
Qual è stata la volta che ti sei arrabbiato di più con la squadra?
«È successo tante volte, magari dopo primi tempi dove potevamo fare meglio. A volte bisogna arrabbiarsi per dare i giusti stimoli. Poi sta all’allenatore capire quando è il momento di usare il bastone o la carota. Sono uno che non risparmia un’arrabbiatura negli spogliatoi se può servire a dare una scossa. Su 153 panchine, dopo tanti primi tempi mi sono arrabbiato, ma può succedere».
Otto derby in campionato contro l’Union Feltre e sei sempre riuscito ad arrivare davanti ai cugini.
«I derby sono iniziati quando sono arrivato a Belluno e in un campionato questo tipo di partite sono un ostacolo in più per tutte le persone il Belluno doveva stare automaticamente davanti al Ripa Fenadora. Io sinceramente questa cosa non la capivo. Hanno sempre avuto strutture migliori di noi e un budget più alto del nostro per organizzare le stagioni, perché il Belluno doveva essere per forza superiore? La differenza però spesso in queste cose la fanno i giocatori, le idee e le persone. E noi siamo stati superiori di tantissimo».
Tornando indietro c’è qualcosa che cambieresti o che non faresti?
«C’è una cosa, la formazione schierata nel derby dell’anno scorso a Rasai. Dopo pochi minuti ho capito di aver sbagliato completamente. Abbiamo fatto una brutta partita, anche se alla fine è finita 1-1».
La sconfitta che ti è rimasta più impressa?
«Quella a Mezzocorona nella stagione 2014-2015, finita 3-1 per loro stavamo bene, potevamo e dovevamo vincere quel match. Invece non è andata così».
A 20 anni pensavi che dopo avresti fatto l’allenatore?
«A quell’età si pensa a tante cose ma non a quello. A 30? Pensavo solo a fare il giocatore. Fare l’allenatore l’ho preso veramente in considerazione solo dopo i 35 anni. E per fortuna ho continuato a giocare fino a 40 anni, ho vinto due campionati in quegli anni. Diventare allenatore ad un certo punto è stata una cosa naturale. Quell’estate 2013 avrei potuto giocare ancora, avevo delle offerte, ma ho detto a Fardin, va bene facciamolo».
Il tuo saluto alla squadra come è andato?
«È durato davvero poco ho detto grazie ai ragazzi per questi quattro anni fantastici e per tutto quello che mi hanno dato. Dopo uno di loro si è commosso e subito dopo ho ceduto io ed è finita lì. Ci tengo a ringraziare tutto il mio staff che mi ha sopportato in queste stagioni. Sono stati pazienti con me, non sempre sono simpatico».
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