Fa nascere campioni di fioretto in Qatar la sfida del maestro Massimo Omeri

Il Qatar non è un miraggio nel deserto, ma una solida realtà sportiva. Dopo i mondiali di atletica e la MotoGp è in dirittura d’arrivo la coppa del mondo di calcio, con la capitale Doha protagonista assoluta. Qui sorge l’Aspire Academy, da quattro anni casa e sede di lavoro per Massimo Omeri, uno dei principali maestri di scherma che, nel ruolo di manager, sta facendo crescere fioretto e spada nell’emirato.
La sua è stata una scelta di vita, la rifarebbe?
«Assolutamente, vedendo come stanno andando le cose in Italia, dove c’è un depauperamento progressivo del tessuto tecnico e sembra esserci una insensibilità totale a questo fenomeno. Chi ha orecchie per intendere, intenda».
Tornerebbe in Italia?
«Sono molto legato alla federazione come istituzione, perché mi ha dato modo di diventare ciò che sono, formandomi prima con il maestro Livio Di Rosa. Se potessi fare qualcosa per la Fis la farei, ma a 55 anni uno non può vivere con 130 euro lordi di diaria giornaliera. Soprattutto se si cerca la qualità. Altrove, in virtù di una applicazione massiva con la scienza dello sport, sono riusciti a raggiungere Italia, Francia e Russia».
La nostra scherma deve stare attenta?
«Sta già scricchiolando da anni, non riuscirei a dire il contrario dalle classifiche a livello giovanile. Il futuro è da capire, l’Italia è in tempo per correggersi e dei correttivi servono. È diventata leader nel fioretto negli anni Settanta perché Di Rosa ha innovato. Si deve continuare a innovare, non solo pensare di essere i migliori al mondo. Vivendo all’estero ti rendi conto di questa cosa. Vedi come si muovono gli altri».
Una critica all’Italia della scherma?
«Il motore della scherma italiana sono le società, il lavoro di base. C’è invece troppo potere lasciato in mano ai gruppi sportivi militari. Hanno il grandissimo merito di sostenere le carriere degli atleti da decenni, e senza non avremmo avuto questi risultati, ma non possono avere potere. Lo sport deve essere laico e non militare, mentre la gran parte dei tecnici che gravitano nelle squadre nazionali sono militari e anche altre cariche. Non va bene, si crea una lobby».
Venendo al Qatar, che ambiente ha trovato?
«Mediamente la qualità della vita è molto alta. Noi dipendenti di Aspire abbiamo poi un trattamento di riguardo per tutto. Dal punto di vista culturale il Qatar è un Paese musulmano ma molto aperto, strizza l’occhio all’occidente. La crisi che c’è stata con gli Emirati, ha creato una rete diplomatica più efficiente con l’Europa. Qui non ti impongono nulla, devi solo rispettare alcune semplici regole».
In quale considerazione è tenuto lo sport?
«È considerato importantissimo, un veicolo di integrazione e promozione sociale per farsi conoscere e far capire alla gente che, sarà pure un piccolo Stato, ma ha soldi e capacità imprenditoriale. Lo sport è un veicolo di educazione per le generazioni future. Formare persone migliori è alla base di tutto, e ultimamente qui hanno organizzato mondiali di atletica e ginnastica, arriverà il calcio, e poi ricordiamo i tornei di tennis».
E si guarda anche oltre. «Esatto, il Qatar ha infatti presentato già al Cio l’intenzione di concorrere per l’organizzazione delle Olimpiadi del 2032. Questo significa investimento nello sport e programmazione lungimirante».
In cosa consiste il suo lavoro in Aspire?
«Sono il manager di riferimento per la gestione della scherma. Non insegno in pedana, ma programmo e gestisco. Aspire sta avendo uno sviluppo enorme. Le stesse federazioni del Qatar hanno vantaggi in ordine culturale e sportivo. Aspire nasce come volontà della famiglia al-Thani, e la gestisce il fratello dell’Emiro. È un centro che si può crescere i talenti sportivi del Paese».
Non solo sport, tuttavia? «Non si sono limitati a quello, perché c’è anche la scuola, è una vera accademia. I giovani sono seguiti a 360 gradi per atletica, calcio, squash, tennis tavolo e scherma. Io faccio poi da ponte con la federazione».
Le manca l’insegnamento in pedana?
«Quello è bello, ma lo è altrettanto ciò che faccio. Talmente stimolante che della pedana non senti la mancanza. Un progetto con tante difficoltà, e stiamo cominciando a inserire pure le ragazze. Se un domani dovessi ricominciare a insegnare, comunque, non mi tirerei indietro».
Se le cito Livio Di Rosa?
«Spesso lo ricordo, e mi chiedo cosa penserebbe di quel che faccio ora. Ha lasciato una eredità incredibile che non è stata sfruttata in vita, e poco anche dopo. Aveva una immensa carica innovativa e forza, voleva sempre far qualcosa per vincere ed essere migliore degli altri. Dico sempre provocatoriamente che la scuola di scherma mestrina non esiste, era più una filosofia applicata, un modo di interpretare l’insegnamento ed essere dogmatico. Altro che testi di scherma degli anni Quaranta».
Si sente un po’ il suo erede? «Non l’ho mai pensato, ho imparato da lui e poi ho usato la mia testa».
Però a Mestre non c’è verso di intitolargli il piazzale di fronte la storica sala.
«Il Comune si deve dare una mossa. Di Rosa è stato il più grande personaggio dello sport veneziano. Lui ha portato il nome di Venezia e Mestre in tutto il mondo per decenni. Ha vinto a raffica tutto l’immaginabile con i suoi allievi, e ha deciso di essere sepolto a Mestre».
Lei è stato maestro di campioni come Zennaro, Cassarà e Trillini.
«Ho trascorso 31 anni a bordo pedana. Ne ho allenati tanti e ho vinto sempre. Loro avevano talento e li ho fatti esprimere. Andrea Cassarà credo che, con Mauro Numa, sia il più grande talento del fioretto maschile degli ultimi sessant’ anni». —
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