Beatrice, coach giramondo con un po’ di cuore a Feltre

L’allenatore argentino lascia dopo nove anni e ora guiderà la Spes Belluno
Derby di pallavolo AlbalunaFeltre-CortinaExpress Belluno
Derby di pallavolo AlbalunaFeltre-CortinaExpress Belluno
FELTRE. Dopo un sogno lungo nove anni, trascorsi tra prima squadra e settore giovanile, tra vittorie e sconfitte, tra volti e memorie fatte di frasi e momenti indelebili, Diego Beatrice saluta l’Albaluna e va alla Spes Belluno: lo fa a modo suo, raccontandosi a cuore aperto, tra schegge di ricordi, frammenti di gioia e malinconia.


Ripercorriamo la tua carriera. Quando hai iniziato ad allenare?


«Appena avevo smesso di giocare, ma in realtà avevo iniziato a muovere i primi passi in questa direzione già nel mio ultimo periodo da giocatore. Ho iniziato ad allenare prima in Argentina, dove negli anni 90 insegnavo anche educazione fisica nelle scuole, poi negli anni successivi è iniziata la mia avventura in Ecuador, dove ho anche vissuto una serie di cose non piacevoli. In Ecuador a livello di strutture in cui allenarsi non c’era nulla: ricordo che la “palestra” se la possiamo definire tale era di piccole dimensioni e “mostruosa”: il pavimento non era in condizioni ottimali, che non è poco e il tetto era aperto, tanto che potevo guardare a 50 km di distanza in linea d’aria un vulcano in eruzione, che talvolta sputava cenere! (ride, ndr). Comunque insegnavo e allenavo sia ragazzi che ragazze del settore giovanile nazionale. In entrambi i paesi l’esperienza da allenatore è stata positiva e mi ha portato a vincere vari trofei. È stato in quel periodo che i ragazzi che allenavo avevano ripescato il mio vecchio soprannome, che poi mi sono sempre portato dietro durante la carriera da giocatore: “El tigre de San Jorge”, cioè il paese da cui provenivo, nella provincia di Santa Fe, in Argentina. Ho trascorso in Sud America tanti anni».


E poi arriviamo al 2008. L’inizio di una bella favola…


“Si. L’approdo all’Albaluna e l’inizio del grande sogno. Ricordo di essere stato contattato da un gruppo di allenatori argentini che si trovavano in provincia di Belluno e in particolare da uno di loro che guidava il Top Team Dolomiti, che all’epoca militava in serie B2: in quel periodo ero ancora in Ecuador, ma la mia esperienza lì stava ormai giungendo al termine. Ricordo di essere arrivato a Feltre in agosto, con l’obiettivo di allenare la prima squadra femminile. All’inizio devo ammettere che ambientarsi non è stato facile: continuavo a sbagliare la pronuncia e non riuscendo a spiegarmi bene le persone che allenavo ridevano sempre. Poi con il tempo sono riuscito ad far apprendere la mia filosofia sportiva. Visitavo anche Feltre in solitudine, cercando di coglierne l’essenza e il significato più profondo, perché una partita si prepara al meglio osservando e capendo ciò che ti sta intorno. Per questo leggevo anche tantissimi libri come faccio tutt’ora, perché penso che la partite debbano iniziare da qui: la pallavolo è psicologia pura. Il rapporto umano infatti è quello che più conta quando alleni una squadra e se un allenatore non è in grado di trasmettere emozioni e obiettivi al suo gruppo allora vuol dire che ha fallito. Ricordo il mio primo periodo all’Albaluna: al gruppo che mi ero trovato difronte mancava qualcosa a livello tecnico e non solo. Eravamo riusciti ad ottenere la salvezza in serie C con un paio di giornate in anticipo, ma rimaneva il fatto che in quella gruppo non c’era ordine tattico e nemmeno programmazione. La squadra, insieme settore giovanile andava plasmata. Ritengo di esserci riuscito e soprattutto nel corso dei miei nove anni di aver fatto qualcosa che resta nella storia: ho cambiato la mentalità, le strategie per esempio. Ho fatto tanto. E ce l’ho sempre fatta da solo, con le mie forze. Me ne rendo conto tutt’ora, quando mi trovo in giro e ricevo complimenti. Tutti si ricordano di me e per questo posso affermare che non c’è cosa più grande e profonda del rispetto e dell’affetto della gente nei miei confronti. Dalla prima squadra sono passato ad allenare il settore giovanile, tutti gli “under” e con il tempo la programmazione è stata ripagata.


Sono arrivate le prime vittorie. Quali sono state le più belle?


«Ho vinto trentadue trofei in carriera, ma la prima finale provinciale vinta con l’under 12 nel 2011 mi è rimasta dentro, senza dimenticare le altre finali, comprese quelle regionali ed i vari piazzamenti prestigiosi ottenuti nel tempo. Ricordo che la palestra era una bolgia. Sugli spalti tutti facevano il tifo. Fischio d’inizio e quel pallone che non toccava mai terra: battuta, respinta, muro, schiacciata. Fischio finale e trofeo alzato al cielo. Ero corso fuori dalla panchina perché non riuscivo più a contenere la mia gioia. Quando sei in partita, ai giocatori devi dire solo poche cose, non serve dilungarsi troppo, perché chi ha carattere non soccombe. Tutti mi seguivano. È bello allenare i giovani perché nei loro occhi vedi la voglia di apprendere e di vincere. Anche le sconfitte fanno bene, talvolta forse più delle vittorie, perché ti fanno crescere e ti mostrano i tuoi limiti, da cui potrai ripartire. Quest’anno le soddisfazioni maggiori sono arrivate ancora dal settore giovanile. Purtroppo con la prima squadra è arrivata la retrocessione. Nonostante ci siano state partite emozionanti ed intense che mi rimarranno dentro come quella giocata contro il Logimont Montorio e non solo… in cuor mio avevo iniziato a capire che il grande sogno era finito. Qualche mese fa, non capisco perché, mi è stato comunicato che non avrei più allenato l’Albaluna».


Ti vedo emozionato…


«Quando sono arrivato alla Luzzo per dirigere l’ultimo allenamento stagionale ho trovato le luci spente. Silenzio. Poi d’improvviso si sono accese e mi sono trovato difronte a oltre duecento persone, tra le quali molti genitori: avevano organizzato una festa d’addio con tanto di striscioni. Per me. Non sono riuscito a nascondere le lacrime. Nove anni mi sono passati davanti in un secondo, con quelle ragazze che allenavo da quando erano piccole e che ora sono grandi. Ho capito che tutto quello che avevo fatto aveva avuto un senso. Tutti li per me. Ho provato un turbinio di emozioni incredibili, specialmente con una bambina che mi ha regalato un disegno che mi raffigurava. Tanti momenti incancellabili, tanti giocatori allenati…».


E quali sono stati i giocatori più forti che hai allenato?


«È difficile da dire. Ne ho incontrati parecchi di forti, ma anche di scarsi, dei quali preferisco non fare nomi. La più forte che ho allenato all’Albaluna è stata senza dubbio Francesca Scarton. Un vero fenomeno. L’ho allenata per anni, fin da bambina e già li si vedeva che aveva delle grandi potenzialità nel ruolo di banda. E il tempo mi ha dato ragione. Un’altra ragazza che è già forte ma che lo diventerà ancora di più, visto che è ancora molto giovane è Alice Gasparini, che prima di approdare in prima squadra era stata una top scorer a livello giovanile. Ora mi attende una nuova avventura, con la Spes».


Allora “adiòs” Diego…


«Non me la sento di dire adiòs perché sarebbe un “addio” e questo non potrò mai dirlo, perché all’Albaluna ho dato tanto e ho ricevuto tanto, soprattutto a livello umano. Qui lascio un pezzo di cuore: nove anni non si dimenticano. Perciò dirò arrivederci. E grazie: alle ragazze, a tutte le persone che ho incontrato e alla società che mi ha dato l’opportunità di sognare e di allenare qui per nove anni. Non vi dimenticherò mai e un giorno spero di ritornare».




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