Una formula azzeccata per evitare ogni combine

Una seconda giuria “aperta” (popolare), di trecento lettori, dopo averli letti tutti e cinque, sceglie quello che a suo parere ritiene il migliore. Anche questo sistema suggerisce l'idea che per il Campiello la scelta è sempore soggettiva e non assoluta. Si sa che le preferenze possono essere varie e determinate da una serie infinita di fattori. Il Campiello sa, e ci tiene a far sapere, che punta su buoni libri e che il migliore in assoluto (senza voler togliere nulla ai vincitori assoluti di tutti questi anni) può essere anche superato dalle preferenze dei lettori anonimi che stabiliranno poi una loro classifica allargata: che può anche coincidere, e spesso coincide, con quella ufficiale. Insomma, il Campiello scalza l'identificazione del giudizio letterario con quello sportivo o politico, in cui anche un solo gol o un solo centimetro o un solo voto di vantaggio taglia ogni possibile discussione sul merito. L'importante è che si legga, e che ciscuno legga a suo modo all'interno di una proposta ben selezionata di opere interessanti. E, per questo, è altrettanto importante che la giuria tecnica discuta in pubblico le proprie preferenze e in pubblico voti: anche qualche altro premio, seguendo il Campiello, fa così da tempo. Vedi il “Comisso”, a tutt'oggi trentennale: che propone una terna di libri vincitori per la narrativa, e una terna per la biografia, e poi affida ad una giuria allargata di una cinquantina di lettori il giudizio finale, evitando ogni forma di “pre-accordo”.
Questo l'impianto: Ma, come si diceva, il Campiello si è evoluto. Sono avvenute alcune svolte importanti nel corso dei cinquant'anni. Alcune riguardano sia la formazione della giuria tecnica sia la scelta del Presidente della Giuria stessa. Nel primo ventennio la giuria tecnica era formata esclusivamente da ascrittori e critici letterari, annoverando alcuni dei nomi più celebri del tempo, , e, fra i Presidenti della Giuria stessa, Tecchi, Falqui, Bo, Prisco, Vigorelli, Piccioni, Fabbri, Chiara, Laurenzi, Barberi Squarotti. Dal 1984 invece il posto dei letterati è stato preso da personalità importanti della cultura in senso lato, o della politica o dell'arte: dai registi cinematografici Antonioni e Tornatore, dagli attori Gassman e Albertazzi, dai politici Andreotti e Susanna Agnelli, dagli scienziati Rubbia e Dulbecco. Anche questa svolta ha significato un allargamento dello spessore letterario verso la cultura intesa in senso ampio: nomi come quelli di Sergio Romano e mario Monti ne evidenziano al massimo il senso.
A fianco della tessitura centrale del Premio, si sono istituite iniziative parallele: fondamentali quelle del Premio alla carriera di letterati illustri come maria Corti, Raffaele La Capria, sanguineti, Lucentini, camilleri; e e quello del Premio all'Opera prima, nell'intento di “aprire” ai giovani o nuovi scrittori, fra i quali sis sono rivelati nomi come quello di Paolo Giordano con il romanzo “La solitudine dei numeri primi” e di Silvia Avallone con “Acciaio” (due best-seller degli ultimi anni). E non meno innovativa l'iniziativa di far concorrere, con un racconto lungo, giovani fra i quindici e i ventidue anni; e, all'opposto, di premiare all'estero romanzi italiani tradotti con successo (il Campiello Europa), da Madrid a Berlino, da Parigi a Londra. L'apertuta verso i giovani scrittoi ha finito per influenzare forse la stessa giuria tecnica e quella dei trecento lettori: perché negli ultimi anni, inavvertitamente, si è verificato un aumento di nopere prime o di romanzi di scrittori giovani anche nelle selezioni finali. Nei primi decenni, fra i vincitori prevalevano nomi già affermati, con opere che confermavano la loro validità: da Berto a Pomolio, da Silone a bassani e Soldati, a Tobino, ad Arpino (a parte la rivelazione nel 1981 de “La diceria di un untore” di gesualdo Bufalino, un libro tutt'altro che facile ma ciononostante votato dai “Trecento”). Negli anni, invece, si sono affacciati nomi nuovi o quasi, da maggiani e De Marchi, fino al debutto inatteso di Antonia Arslan con il suo “La masseria delle allodole” nel 2004. E, al seguito, nomi sorprendenti come quello di Pino Roveredo, Mari8lina Venezia, bendetta Cibrario, Michela Murgia, fino all'affermazione nel 2011 dell'opera prima di Andrea Molesini con “Non tutti i bastardi sono di Vienna” al primo posto assoluto. Il lettore cerca il libro e non solo l'autore: si veda il successo di Giancarlo marinelli con “Dopo l'amore”, di Romolo Bugaro con “Il labirinto delle passioni perdute”, di Simona Vinci con “Come prima delle madri”, e di Antonio Pennacchi con “Canale Mussolini”. Contemporaneamente si sono imposte molte scrittrici. Nei primi decenni soltanto Gianna Manzini aveva vinto il premio maggiore con “Ritratto in piedi” (1971). Poi si sono succedute, invece, due “quaterne” di scrittrici: dal 1988 al '91, Loi, Duranti, Maraini, Bossi Fedrigotti; e, dal 2007 al 2010, Venezia, Cibrario, Mazzantini, Murgia, oltre alla Morazzoni e alla Mastrocola nel 1997 e nel 2004: segno, anche questo, di un aggiornamento di pari passo con la maggior diffusione della narrativa a firma femminile nel mercato librario.
C'è da fare, infine, anche qualche considerazione sull'evolversi della narrativa in questi anni recenti. Presumeremmo troppo se pensassimo di poter fare un bilancio. Non soltanto per la distanza ravvicinata, che rende difficile uno sguardo critico consapevole, ma anche perché la narrativa, come ogni forma d'arte del resto, evolve lentamente; e quando a chiusura di qualche convegno ci si chiede un bilancio, ci sentiamo sempre di rispondere che la “produzione” letteraria (brutto termine) non equivale a quella del grano o del vino per ogni stagione. Qualche accenno, comunque, si può tentare.
Sul piano formale, ci pare che il linguaggio sia sempre più incline al parlato, con tutte le interferenze del “gergo” (compreso il turpiloquio) giovanilistico, che ormai è esteso a tutte le generazioni; salvo, poi, qualche soprassalto fantasioso, visionario fra sogno e realtà, quasi ad aprire uno spiraglio in mezzo alla cronaca bruta dei fatti e delle situazioni: a suggerire che si sa fare ancora della bella letteratura. In parallelo, c'è un frequente ritorno al dialetto (da Niffoi a Murgia, a Pennacchi, alla Pariani) non tanto in forma di cronaca diretta alla maniera dei neorealisti del primo dopoguerra, quanto spesso in una forma inventiva, di un dialetto non scrupolosamente, filologicamente fedele, ma personalmente ricreato. Per le tematiche (qui il discorso si fa anche più difficile) c'è molta attenzione alla vita sessuale in forme più o meno scoperte; ai rapporti affettivi in forma canoniche o eversive (divorzi, separazioni, aborti, omosessualità); alla realtà plurirazziale come nuova realtà sociale di immigrazione e di mescolanza di tradizioni, lingue e religioni; e alla questione ebraica vissuta sempre in forma conflittuale. Il genere del “giallo”, poi, continua ad affermarsi anche in scrittori di altra generazione, il cui successo continua a sbalordire: e non a caso proprio a Camilleri è stato assegnato l'ultimo premio alla carriera 2011.
Camilleri e il Campiello giovani, Premio Opera prima e Campiello Europa, giuria tecnica e giuria popolare: è una vasta e complessa impresa, che ha fatto e fa leggere molto. Nei cinquant'anni, almeno duecentocinquanta libri sono usciti dalle premiazioni del Campiello, per segnalare solo le categorie maggiori, affiancate da tutto il contorno di categorie affiliate. Dalle nozze d'oro il Campiello si avvia a quelle di diamante: si succedono le generazioni degli organizzatori, rimane lo spirito. Dall'isola di san Giorgio al cortile di Palazzo Ducale al Teatro La Fenice: ne ha fatta di strada, per approdare su quel palcoscenico che è il fulcro dell'arte musicale, orchestrale e lirica. E dove si ripresenterà giovanilmente fra poche ore.
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