Miseria e ricchezza di Ciprì Applausi e speranze per la tragicommedia tricolore

VENEZIA. Alla periferia di Palermo, i palazzoni grigi che si stagliano all’orizzonte assomigliano ad una fortezza. Il baluardo di una umanità disgraziata e misera, dove il sottoproletariato viene emarginato dal mondo reale e confinato in una dimensione lontana, quasi post-atomica, tra condomini disastrati, carcasse di automobili arrugginite e squallide spiagge circondate dai resti di una civiltà industriale. Qui abita la famiglia Ciraulo: il capofamiglia Nicola (Toni Servillo) con la moglie Loredana, i figli Tancredi e Serenella e i nonni Fonzio e Rosa. Quando la piccola Serenella viene uccisa nel corso di un regolamento di conti mafioso, la tragedia diventa per i Ciraulo l’occasione per svoltare: con il risarcimento dello Stato in favore delle vittime della mafia potranno realizzare i loro sogni. Ma i soldi passano attraverso una trafila burocratica lunga e faticosa e i Ciraulo non possono aspettare. Spendono prima di incassare e, quando alla fine il denaro arriva, pagati i debiti contratti a usura, rimane un gruzzolo che spendono per acquistare l’unico simulacro di ricchezza che possano ancora permettersi: una Mercedes nera fiammante. La gelosia di Nicola per l’auto gli costerà la vita. “E’ stato il figlio”, diretto da Daniele Ciprì orfano di Franco Maresco, primo film italiano in concorso, è una tragicommedia raccontata attraverso un lungo flashback: è Busu (l’attore cileno Alfredo Castro), un omuncolo che passa le sue giornate in posta pagando le bollette per gli altri in cambio del resto, a ricordare la miseria della ricchezza, causa della rovina della famiglia Ciraulo. Ciprì rimane molto fedele al suo cinema di reietti, degni successori dei personaggi di Cinico tv, con la differenza che la deformità fisica che connotava i protagonisti delle strisce televisive in bianco e nero diventa qui ottundimento e degrado morale. Il regista mantiene per quasi tutto il film un registro narrativo grottesco e surreale che deflagra in un finale a sorpresa, in cui non si ride per nulla. Anzi, si rimane tramortiti dalla parole di nonna Rosa: la sua bocca, nel dettaglio di una inquadratura che, soffermandosi sui suoi denti marci e sottili, amplifica l’estetica del brutto “interiore” che si respira nel film, vomita tutta la tragedia e la disperazione di una umanità inevitabilmente condannata ad abbassare la testa e ad accontentarsi del resto, di quei pochi spiccioli che la civiltà, graziosamente, le riserva.
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