Giuseppe Tabacchi e l'inferno russo: «Giorni terribili»

A sinistra Giuseppe Tabacchi nella sua casa cadorina In alto a destra è con un gruppo di commilitoni Sotto (a destra) è all’ospedale di Roma dopo essere stato ferito in Russia
A sinistra Giuseppe Tabacchi nella sua casa cadorina In alto a destra è con un gruppo di commilitoni Sotto (a destra) è all’ospedale di Roma dopo essere stato ferito in Russia
E' uno degli ultimi protagonisti della campagna militare in Russia, di una tragedia oggi dimenticata, che coinvolse tanti giovani bellunesi, letteralmente scaraventati in una guerra assurda, svaniti nel mare della steppa. Un'esperienza che lo ha segnato per tutta la vita, e che oggi, con grande fatica ed emozione, ha deciso di rievocare: «Si risoffre a raccontarla, chi non ha vissuto quell'esperienza non può capire cosa ci è capitato in quei terribili giorni».  Giuseppe Tabacchi, "de chei de Liana", 88 anni, conosciuto come "Bepi fontanièr" per aver lavorato 30 anni per il municipio di Pieve come "fontaniere" appunto, è nato il 7 novembre 1922 a Sottocastello, secondogenito dei tre figli di Luigi e Virginia Tabacchi. La sua avventura militare iniziò il 15 novembre 1941 quando, assieme all'amico Giacomo Ciotti, fu chiamato ad Udine, alla Divisione Julia, per essere incorporato come radiotelegrafista nell'11º Batt. Misto del Genio.  Il 6 agosto 1942 la compagnia T.R.T. partiva per la Russia e dopo 15 giorni di treno giunse ad Isjum, da dove proseguì a piedi verso il Don, distante 300 chilometri. La marcia fu funestata da un attacco di cavalieri ucraini, che ferirono il S.M. Prati e uccisero il S.Ten. Miege, ma alla fine si arrivò al Don, tra Novokamenke e Dukowoje, per prendere il posto di reparti ungheresi e tedeschi. Giuseppe e Giacomo, con il loro gruppo furono inviati a Korenj, presso Saaprina, nelle retrovie, dove erano dislocati i magazzini ed i forni militari.  «Con me c'erano altri cadorini, Assunto Agnoli di Valle, Artemio Del Favero e Enrico Da Forno da Pozzale, autiere. Quest'ultimo morì qualche mese dopo di fame".  Fu qui che Giuseppe compì i suoi 20 anni. Nel dicembre ci fu il crollo della VI Armata tedesca a Stalingrado e i russi avviarono un'offensiva sul Don, sfondando i settori rumeno ed ungherese della 385a Div. Tedesca. «Nelle notti antecedenti aerei sovietici avevano lasciato cadere manifestini nei quali ci invitavano alla ritirata perché presto sarebbero passati al contrattacco grazie ad armi nuove avute dagli americani». Il 16 dicembre la Julia fu inviata a chiudere la breccia e Giuseppe fu aggregato al Btg. alpino "Val Cismon" e spostato nella zona di Seleni-Jar, 300 chilometri più a sud.  «In quei drammatici frangenti fui separato dall'amico Giacomo, che intravidi per qualche istante mentre con altri stava stendendo dei fili telefonici. Gli ordini erano di prendere con noi il minimo indispensabile, le armi e le munizioni. Con Assunto Agnoli fui caricato su dei camion e trasferito a Deresowka, nel tratto di fronte occupato dal "Val Cismon". Il giorno di Natale ci scaricarono in un magazzino e da qui procedemmo a piedi verso la zona di combattimento. Il gelo era polare, -30º. Trovammo gli alpini trincerati nella neve con dei ricoveri improvvisati dove, nonostante il freddo, riuscivano a riposarsi distesi su dei tavoloni. Mi son detto: "Siamo proprio messi bene"! Fummo attaccati diverse volte dai russi, che compivano delle sortite, soprattutto la mattina presto verso le 5. Venivano avanti mezzi ubriachi di vodka, sparavano all'impazzata, poi si ritiravano. C'era confusione in entrambi gli schieramenti, la situazione non era sotto controllo. Nel primo scontro perdemmo 5 o 6 compagni, l'unica mitragliatrice, una "Breda 37", si inceppava per il gelo e così i nostri fucili. In un combattimento mi capitò di combattere corpo a corpo. Quella volta in pochi minuti avemmo 12 morti. Sono stato costretto a sparare per difendermi, non avrei mai voluto farlo. Ricordo ancora l'angoscia con cui abbiamo raccolto i nostri caduti. Li portammo su una collinetta e dalla cima li facemmo rotolare giù in un avvallamento come in una fossa comune. Forse saranno ancora là».  «Rimasi impressionato dai tanti compagni feriti e affamati, abbandonati a morte certa. Subimmo anche diversi mitragliamenti da parte degli aerei sovietici. La fame era tanta e debbo grande riconoscenza alle donne russe che ci hanno aiutato moltissimo con grande bontà d'animo, dividendo con noi quel poco che avevano. La sera del 16 gennaio, mentre mi riscaldavo davanti al fuoco, rimasi ferito alla gamba destra da una scheggia di granata scoppiata nelle vicinanze. Fui subito soccorso dai portaferiti e dall'amico Agnoli e caricato su di una slitta. Ricordo ancora le sue parole: "Sei fortunato, con questa ferita te ne torni in Italia". Parlò come se presagisse il peggio. Infatti non fece ritorno. Anche l'amico Assunto è una delle "centomila gavette di ghiaccio"».  Tabacchi fu trasportato all'ospedale di Rossosch dove regnava la confusione più totale: «I feriti e i moribondi erano abbandonati a loro stessi, mentre tutti pensavano a fuggire e salvare la pelle, perché i russi stavano per arrivare. Fui scaricato su un vagone bestiame con un po' di paglia, mi steccarono e poi fui dimenticato per 3 giorni, senza poter bere né mangiare, con temperature polari. Ero pieno di pidocchi, mi massaggiavo la ferita e in mano mi restava sangue frammisto a pidocchi. Per il freddo mi si congelarono le dita del piede destro ed ebbi un principio di congelamento alle mani, segni che conservo ancora oggi. Finalmente il treno partì, era l'ultimo convoglio che lasciava il fronte prima che il 26 gennaio la sacca sovietica si richiudesse a Nikolajewka. Il treno viaggiava a rilento, sotto i continui attacchi dei partigiani russi che ci mitragliavano e danneggiavano i binari. Finalmente giungemmo all'ospedale di Kharchov. Durante il viaggio molti compagni morirono e furono scaricati nelle varie stazioni lasciando così posto per noi feriti».  Il viaggio di ritorno in patria durò 25 giorni: «Fui ricoverato all'ospedale di Riccione, quindi trasferito a Roma al Centro Mutilati, poi ancora in vari ospedali e finalmente, in estate, potei tornare a casa ed abbracciare i miei. Ancora oggi, a 70 anni di distanza, mi considero fortunato: di 22 compagni dello stesso reparto partiti per il fronte russo, di cui 6 cadorini, siamo ritornati solamente in due, io e l'amico Giacomo".

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