Giovanni Viel, la voce dei campioni bellunesi

Da quarant’anni il giornalista pontalpino narra le nostre vittorie più belle
BELLUNO. Domani sera presenterà “5 re dolomitici”, la sua ultima fatica editoriale. Un libro che parla dei “suoi” sport, vale a dire lo sci di fondo, la corsa in montagna e l’atletica.


Pochi come lui conoscono così in profondità la storia di queste discipline: una conoscenza che viene dall’avere commentato eventi piccoli e grandi, competizioni nazionali e internazionali. Con voce potente e passione sconfinata.


La presentazione del libro è l’occasione per fare due chiacchiere con Giovanni Viel, da quarant’anni una delle voci più importanti degli sport invernali e dell’atletica italiani.


Giovanni, quando hai iniziato la carriera di commentatore e di giornalista?


«L’esordio con il microfono avvenne esattamente quarant’anni fa. Era il febbraio del 1977 e in Nevegal si correva il trofeo Marcello De Toffol, gara qualificazione zonale di fondo organizzata dallo Sci club Ponte nelle Alpi. Dovevo aiutare Renzo Stefano Mattei, ma per un’emergenza lui dovette cronometrare e il presidente dello sci club, Corrado De Biasi, mi chiese di annunciare gli atleti all’arrivo e leggere i tempi. La prima gara di sci alpino che commentai fu, sempre in Nevegal, nel 1980, la finale regionale del Trofeo delle Regioni. Era organizzata dal Gruppo sportivo Alpini di Belluno, fui chiamato dal presidente Paolo Garaboni e da Mario Dell’Eva».


Chi sono stati i tuoi ispiratori o maestri?


«Nel 1983 il presidente della Fidal del Veneto, Piero Rosa Salva, e l’allora consigliere nazionale, Giancarlo Scatena, mi inviarono ad un corso di formazione speaker a Bologna organizzato dal Coni. Eravamo una decina selezionati in Italia. I docenti erano Vanni Loriga e Pino Gianfreda, le voci istituzionali della federazione nei grandi meeting di atletica. I riferimenti cui ispirarsi sono stati diversi. Ad esempio Giorgio Dal Piai, di Bolzano, per decenni lo speaker istituzionale del Coni: per preparazione, impostazione e cultura per me rimane il più grande di sempre. Poi Attilio Monetti, per la sua enciclopedica formazione e innovazione introdotte nell’atletica. Nello sci di fondo, grande riferimento è stato il valdostano Cesarino Cerise, con il quale abbiamo introdotto nuovi format di commento. Vale la pena sottolineare come allora, non essendoci internet, la documentazione sugli atleti fosse un lavoro di aggiornamento e studio continuo utilizzando giornali e riviste».


Quali sono gli eventi più importanti che hai commentato?


«Il primo campionato italiano fu quello di corsa in montagna nel 1979 a Quantin, anche se mi chiesero di dare una mano nel 1978 a Saint Vincent, l’ultimo dell’era Enal. Nel 1983 commentai le prime gare internazionali di fondo e di corsa in montagna a San Giovanni Ilarione (Verona) con Monetti. Nel 1985 seguii le gare di fondo dell’Universiade in Nevegal e il primo mondiale di corsa in montagna, a San Vigilio di Marebbe. La gara più incredibile rimane un campionato italiano giovanile di fondo sull’Etna, sopra Linguaglossa, su una pista che due anni dopo il vulcano spazzò via. Di quell’esperienza siciliana ricordo l’accoglienza immensa e l’organizzazione colossale».


A Oberstdorf, il 21 febbraio del 1987, fosti il primo a intervistare Maurilio De Zolt. Il “Grillo” aveva appena tagliato il traguardo della vittoriosa cavalcata nella 50 chilometri tedesca. In quell’occasione, inviato per Telebelluno, sorprendesti e anticipasti con un vero e proprio blitz tutti gli inviati internazionali.


«Le gioie più belle sono state quelle di commentare imprese di campioni bellunesi in giro per l’Italia e non solo: l’iride di Maurilio, ma anche il podio di Fulvio Scola nella team sprint di Coppa del mondo al Parco Sempione di Milano nel 2012 o il trionfo di Dino Tadello al Mondiale di Keswick di corsa in montagna nel 1988. Quello di Oberstdorf in effetti fu un blitz pazzesco, compiuto anche con la collaborazione degli addetti dell’organizzazione».


Nel 1988 commentasti pure Pietro Mennea.


«Sì, a Padova, al Trofeo dell’Industria: era il rientro alle gare di Mennea prima dei Giochi di Seoul».


Quali sono i personaggi che maggiormente ti hanno colpito?


«Moltissimi. Con alcuni sono poi maturati grandi legami di amicizia. Oltre agli amici che hanno condiviso questa esperienza del libro e a tanti altri, vorrei ricordarne soltanto uno: Bjoern Dahelie. Uomo semplice e umile il fuoriclasse norvegese: ci siamo rivisti ai Mondiali Master di Asiago qualche anno fa e mi ha commosso perché, dopo l’inaugurazione, mi ha riconosciuto e mi ha abbracciato. Conservo poi il pettorale che Régine Cavagnoud mi regalò nel 2001 al termine della sua ultima vittoria in Coppa del mondo, prima dell’incidente in gara a Sölden che gli costò la vita».


Corsa in montagna e sci di fondo sono i “tuoi” sport. Come vedi il futuro di queste due discipline che tanto hanno dato alla montagna bellunese e all’Italia?


«Per quanto riguarda lo sci di fondo, i tempi d’oro di De Zolt, Fauner e Piller Cottrer sono lontani. Ci sono però giovani di grande potenziale, pur nei numeri di una base ristretta e in sofferenza. Bisogna lottare per difendere la cultura antica di questo sport come da sempre fanno a Sappada o Padola, solo per fare due esempi. E la federazione deve aiutare questo processo culturale e sportivo che è proprio di molte realtà, incentivando i tecnici e i dirigenti: se questi mollano è la fine. E un grande merito va alle realtà militari che, pur non potendo più avere le disponibilità di un tempo, continuano ad assicurare il sostegno. Ci sono comunque giovani molto validi in prospettiva come i nostri Anna Comarella e Davide Graz, che hanno, oltre il talento, anche la “testa” e il fondamentale aiuto delle famiglie. Mi piace poi la passione del giovanissimo feltrino Hicham Boudalia che papà Said ha impostato su solide basi. Relativamente alla corsa in montagna, l’Italia è stata la scuola che ha salvato e rilanciato la disciplina in ambito internazionale. Ora l’arte antica di questo settore dell’atletica sta subendo le rivoluzioni legate al mutare dei tempi e dei format di gare. Si sta perdendo un patrimonio culturale: le grandi gare di staffetta o individuali sono ormai rare nei calendari stagionali, lasciando spazio a nuove forme di competizione che meritano riflessioni. È cambiato anche il corridore di montagna, oggi diverso da quelli espressi negli altri decenni. Protagonisti come Ivo Andrich sono delle icone irripetibili».


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