Bee, la “personificazione” di un ruolo Anni tra i pali e ora faro per tanti giovani

Ha vissuto l’era d’oro del Belluno in C2, poi ha vestito le maglie di Cavarzano, Feltrese e San Giorgio prima di allenare

Gianluca Da Poian / BELLUNO

Tende a non guardare i campioni in tv. Ad Alessandro Bee interessa esclusivamente il lavoro sul campo. Lui, preparatore dei portieri del Belluno, ha un rammarico che al tempo stesso sta diventando un grande obiettivo. Ce lo ha raccontato in questa intervista, tra poco lo scoprirete. Intanto, chiacchierando, abbiamo ripercorso alcune tappe della sua lunga e interessante carriera. Carriera nella quale di soddisfazioni se ne è tolte parecchie, giocando tra l’altro in quattro delle più importanti società provinciali. Cavarzano, Feltrese e San Giorgio Sedico, in questo rigoroso ordine, sono state le ultime tappe con la maglia numero uno sulle spalle. Ma è al Belluno che Bee è diventato grande, catapultato in prima squadra quando ancora non aveva tagliato il traguardo della maggior età. La promozione in C2, le due stagioni nei professionisti, il sogno di difendere in tutta Italia i pali della squadra del cuore. Da un paio d’anni la società gli ha affidato il compito di far crescere i portieri della prima squadra. Una sorta di filo riallacciato con il passato. Guardando però al futuro.

In serie D, con portieri di solito molto giovani, qual è il suo compito?

«Aiutarli a proseguire il loro percorso di crescita. A me piace quando un estremo difensore è “pensante”, deve riuscire ad interpretare il gioco».

Di solito si trasmettono valori ed insegnamenti acquisiti nel tempo. Qual è stato o quali sono stati i suoi maestri?

«Alessandro Fistarol, nel passaggio tra settore giovanile e prima squadra, mi ha trasmesso il come si lavora. Dedizione, voglia di non prendere gol e così via. Anche Roberto Barbazza lo ritengo prezioso nella mia crescita. Come dimenticare poi Gigi Bernardi, col quale ho un ottimo rapporto. E devo molto pure a Roberto Boldrin, avuto all’Asolo nel 2006-2007 (passato poi al Belluno con Andreucci nei due anni successivi, ndr) e in seguito protagonista di un gran percorso tra Treviso, Altovicentino e Triestina».

Lei ha ambizioni di categoria superiore?

« Il mio legame con Belluno e con il Belluno è forte, il lavoro in piscina come specialista in rieducazione funzionale mi assorbe molto tempo. In più da due anni sono diventato papà di Edoardo. Non manca nulla qui alla mia felicità, sono nello staff della società più importante della provincia assieme all’Union Feltre. E poi mi sono dato un obiettivo».

Quale?

« Da una decina d’anni alleno i portieri, in particolare nel settore giovanile. Eppure non sono riuscito, e in generale non riusciamo qui in provincia, a mandare a giocare nel calcio che conta un nostro portiere».

La regola dei fuoriquota non aiuta. Quanti portieri e non solo bellunesi, una volta usciti dall’età “under”, non hanno più trovato spazio...

«Così come è strutturata, non serve affatto. Uno, o al massimo due giovani obbligatori possono starci, anche perché così vanno in campo effettivamente quelli potenzialmente più bravi. Quattro invece è un eccesso. Nel mio caso, trovo assurdo al primissimo anno di serie D aver giocato lo stesso numero di partite del ben più forte Barbazza. Salvo poi, anni dopo e con molta più maturità e consapevolezza dei miei mezzi, non poter andare più in su dell’Eccellenza».

Guardiamo il lato positivo della questione giovani. Quelli del Belluno, nel 2002-2003, erano proprio bravi...

«Concordo. Giuliatto, Togni e Schiavon raggiunsero la serie A, idem il mio compagno di porta Tomasig. Tra l’altro lui a metà del secondo anno di C2 andò direttamente a Cagliari in cambio di Capello. Ad ogni modo vincemmo il campionato perché avevamo tutte le caratteristiche necessarie. I fuoriquota certo, ma anche un gruppo di “vecchi” forti ed ambiziosi. Essere bravi non basta, occorre avere fame di successi. E poi lo staff tecnico, dall’allenatore Toni Tormen a Modesto Bonan».

Giocò lei la partita contro il Bassano...

«Di prendere quei decisivi tre punti ne ero convinto già la sera prima. Avevamo mangiato a Villa Carpenada, poi seguì una seduta video per studiare il Bassano. Appena spenta la tv, parlai con alcuni compagni e dissi loro: “Questa partita l’abbiamo già vinta”. I vicentini erano forti, fortissimi. Ma atleticamente andavamo il doppio di chiunque altro».

E poté vivere la vita di un giocatore professionista.

«Erano gli anni dell’università, però il calcio lo mettevo al primo posto in ordine d’importanza. D’altronde in C2 ci si allenava anche in doppie sedute, le trasferte prevedevano il ritiro e così via».

Come fu il professionismo?

«Un’esperienza da provare se ne hai la possibilità. Giocavamo in stadi di assoluto livello. Mantova, Monza, Cremona… Nel girone di ritorno 2003-2004, grazie ad un gran mercato, totalizzammo ben 26 punti, con salvezza conquistata all’ultima giornata in quel di Meda. Lasciamo stare invece il torneo successivo. Un supplizio, non eravamo adeguati alla categoria».

Ha chiuso con Feltrese e San Giorgio Sedico tra il 2012 e il 2016...

«Andai a Feltre su invito dell’amico Ivan Da Riz. L’obiettivo era tentare di vincere, cosa mai riuscita a nessuno lì. Uno squadrone, considerando i vari Giazzon, Polesana, un giovane Salvadori, Armenise, Argenta, Marinelli e così via. Arrivammo quarti, non disputando i playoff solo per il distacco di punti. L’anno successivo... un disastro, calcisticamente ed economicamente. Al San Giorgio in Eccellenza compresi invece la passione e l’entusiasmo dei dirigenti. Spero proprio di ritrovarli in serie D, quando ricominceremo a giocare». —

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