L’addio al giornalista Tantucci, il ricordo: «L’humanitas di un amico»

Stefano Scansani, già direttore della Gazzetta di Mantova, ricorda il nostro cronista della Nuova Venezia mancato sabato 18 ottobre

Stefano Scansani *
Enrico Tantucci
Enrico Tantucci

Sino a cinquant’anni fa, o giù di lì, il pescaggio di apprendisti, novizi e praticanti nei giornali locali era indigeno. Nuove leve tutte e sempre del posto. Capitò quindi che Enrico Tantucci, provenendo da fuori, mai visto prima, non avendo inflessioni nella parlata e inciampi dialettali nella scrittura, fosse una novità assoluta. Il suo esordio giornalistico, infatti, avvenne a Mantova la cui Gazzetta tricentenaria era da poco entrata nel supergruppo editoriale e s’era fatta consorella dei quotidiani veneti.

Enrico esordì quindi nella città dei Gonzaga, dunque del Rinascimento, la quale rispetto alla sua Venezia fu un’antiporta, direi il frontespizio, alla sua carriera di cronista colto, intellettuale divulgatore, d’una gentilezza impeccabile, sempre misurato, atteso nei e sui giornali su cui scriveva.

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Tantucci al centro con Vitucci, Pivato (sinistra), De Rossi e Cecchetti nella storica redazione di Venezia

Fra il 1982 e il 1985 il “romano” affinò a Mantova il mestiere che aveva voluto fortissimamente intraprendere, e contribuì a raffinare quello veterano della redazione, allora legata alle consuetudini provinciali, ai confini, alle abitudini. “Romano”, di provenienza e formazione, con radici umbre, riverberi bolognesi, infilatosi improvvisamente e provvidenzialmente nelle consuetudini “tipiche”, Enrico portò aria nuova e perciò un gusto sconosciuto all’esercizio del giornalismo quotidiano.

Che altro poteva iniettare lui, figlio di un latinista di prima grandezza e di una scrittrice che tanto operò per l’istituzione del ministero della Cultura? Enrico, specialista di grammatica sbarcando sul Mincio scoprì la nebbia (anche letteraria) e nella sua scrittura fuse la pratica della cronaca con quella della narrazione colta per forma e sostanze, trasformando la sua curiosità in un’avventura/lettura per tutti. Capacità che per un giornalista è somma.

In cerca di notizie viaggiavamo come due carabinieri, Enrico ed io. A ciascuno il proprio ruolo: io che lo portavo in perlustrazione nella città e nella campagna sconosciute, gli dettagliavo storie e presente, strade e persone, annessi e connessi; lui che da “straniero” empatico vi trovava accenti, sfumature e confronti che a noi locali sfuggivano.

Insieme imparammo gli esisti della doppia lettura (tu leggi e correggi il mio articolo e io il tuo, con giudizio finale, sincero) sperimentando così una democrazia redazionale e quello che – ora me ne rendo conto – fu una trasfusione di conoscenze, stili, punti di vista da persona a persona. È una pratica che mette nervi alla crescita.

Ho frequentato le sue case, da quella materpaterna in via Cola di Rienzo a Roma dove insieme ci preparavamo all’esame di Stato, quella mantovana in via Attilio Mori dove aveva cominciato a vivere con la cara Ileana (figlia d’un artista virgiliano), e la veneziana, definitiva e tanto amata, sino al suo buen retiro al Lido dove ci ritrovavamo quando seguiva senza pari la Mostra del Cinema.

L’ultima volta ci sentimmo tre mesi fa quando ebbi la necessità di raggiungere il professor Manlio Brusatin per ragguagli sul senso dei camini che Giulio Romano realizzò a Palazzo Te. Senza nulla sapere o sospettare della malattia gli dissi “in gamba”. Mi rispose “non più”. Captai una debolezza, una flebilità, che però Enrico disinnescò con un saluto affettuoso. Sorrise.

Di lì a poco entrò in azione e mi mise in contatto con lo studioso instillando la stessa perizia e generosità dei primi anni Ottanta. Fino in fondo, quella che lui e suo padre avrebbero descritto come “humanitas”.

*Giornalista

 

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