Storie di malga: donne protagoniste in stalla per battere i pregiudizi

Mirta Lira ha sempre lavorato in fabbrica, ora ha una azienda agricola a Vignui. Anna Maria De Bona e le figlie gestiscono la struttura di Framont  



Al tavolone di legno, che occupa quasi tutta la stanza – o così pare – il pastore mangia polenta e formaggio, muto.

Forse fa un cenno, ma resta concentrato sul suo pranzo. Il crepitio del fuoco, dal larìn, occupa la stanza, si dilata e accarezza le foto sbiadite disposte in ordine sulla credenza, le panche alle pareti, la cucina economica, le travi del soffitto e il pavimento mattone. Dietro al bancone c’è una donna, in braccio ha una bambina.

Se ne stanno lì, remote, come un’apparizione – la bambina è scalza, occhi allungati e capelli nerissimi, sembra una piccola Cheyenne.

casera della grava

Salire alla casera della Grava è come varcare un’inesplorata altra dimensione, uscire dal tempo. La malga è gestita da quasi 30 anni da Ezio Lena, e la donna remota, Alessia, è la sua compagna. Anche lei ha i capelli nerissimi, lunghi, come la figlia Lucia. Fuori uggiolano i cani, le vacche e le capre – più di 100 bestie, in tutto – sono sparse al pascolo. Ezio fa il malgaro da una vita, Alessia è figlia di gelatieri, “ma non mi piaceva”, e ora fa formaggio anche lei ai piedi della Moiazza. In malga ci si arriva in auto dal passo Duran, pochi minuti per uscire dal tempo.

La malga è di prprietà del comune di Zoppè di Cadore – la geografia delle malghe è frutto di svalicamenti antichi, faticose conquiste di pascoli, confini preziosi accuratamente segnati.

Le spetta un territorio di 412 ettari, tra pascolo, crode e boschi: il comune di Zoppè tutto è giusto una ventina di ettari in più.

«Una volta – racconta Ezio, mentre mi mostra la superficie della malga su una cartina di fine ’800 – si lavorava a piodech: salivano su una cinquantina di uomini, e in 2 giorni pulivano tutto il pascolo».

Le malghe allora avevano una funzione collettiva, erano indispensabili per la vita economica del paese.

Non è più così: «Oggi ci dicono, fate l’agriturismo, ma noi non siamo mica in centro ad Agordo, qui la gente ci viene pochi giorni a stagione. E comunque, finché ci sono io, la malga rimane malga».

Ezio fa formaggio da quando era piccolo: suo padre ha lavorato tutta la vita nelle latterie dell’Agordino, «ma è mancato giovane, non mi ha spiegato tutto. Io con l’occhio rubavo il suo lavoro, e ho imparato da lui a conoscere il latte. A capire le vacche, il pascolo».

Ezio ha studiato da escavatorista, e nel ’78 è stato cinque anni a lavorare in Libia, «ma sai, mi sognavo sempre delle mie montagne»: e così è tornato a casa, e ha ripreso a vivere della sua passione. Prima i cavalli, poi le vacche – grigio alpine, le più resistenti – e le capre, risanatrici dei pascoli della Grava, ai piedi della Moiazza.

malga framont

Dall’altro lato della Moiazza, in una posizione di una bellezza stupefacente, che dà sull’Agordino, sta invece malga Framont. È una malga di sole donne: la gestiscono Anna Maria De Bona e la figlia Giulia Frigimelica. Anna Maria fa il formaggio, Giulia cura le bestie.

Da qualche tempo hanno scelto di portare su le mucche con il camion, invece che a piedi, “ché a scendere sei te che corri davanti a decine di vacche che corrono, e fa un po’ paura, con la forza di gravità che trascina tutti a valle”.

Il salone – accogliente, abitato – è dominato da un lungo tavolo con la tovaglia a scacchi bianchi e rossi. Oltre alle caciotte, vasetti vari, immagini alle pareti, libri. Anna Maria prepara il caffè sulla cucina economica; dietro, attorno al larìn, sta la seconda figlia con un’amica. Nell’aria c’è un buon profumo di frutta, sul fuoco si scalda la marmellata da colare sulla ricotta fresca.

L’azienda agricola Frigimelica è a Belluno, tra Bolzano Bellunese e Tisoi: durante l’anno il latte delle oltre 60 mucche viene conferito a LatteBusche, d’estate le mucche salgono in malga, e con loro Anna Maria e Giulia.

Non è così frequente capitare in malghe gestite da donne: perché “in genere le aziende agricole sono in mano a malghèr o a conduzione famigliare. Le chiusure mentali, sembra di no, ma esistono ancora”.

malga pien de vacia

Mirta Lira, perito meccanico, ha sempre lavorato in fabbrica. Finché ha mollato tutto, e ha creato l’azienda agricola Rosa Maria, a Vignui. Ha cominciato con il fagiolo di Lamon, poi la coltura di altri prodotti orticoli, l’allevamento di polli e suini. «Il ritorno alle mucche è merito di mio figlio: a 12 anni ha vinto una vitellina alla benedizione delle macchine agricole, per il trattore meglio allestito». Mirta è tornata alle mucche perché a Vignui ce n’erano sempre state, ma «i genitori han sempre cercato di portarci verso altri lavori».

Oggi Mirta e il figlio hanno più di 30 vacche, che, assieme alle altre bestie, d’inverno sono distribuite in 4 piccole stalle – a Vignui, Lentiai, Mel e Trichiana – e d’estate salgono in malga Pien de Vacia, a Selva di Cadore.

«Paradossalmente, per noi è meno faticosa la vita su in malga. Abbiamo scelto di non investire tutto per costruire una grande stalla a casa, ma di utilizzare le strutture già presenti sul territorio. Chiaro che questo comporta lavoro, anche solo per mungere e dar da mangiare alle vacche, ogni mattina, in posti diversi».

La malga Mirta l’ha presa in gestione nel 2016, dopo aver tentato invano diversi bandi in sinistra Piave: «Riuscire a vincere un bando, come donna, è stato difficile, e importante. Quell’anno sono andata su con mio figlio e un suo compagno di classe. Facevamo tutto, tutti, anche il formaggio».

Oggi il formaggio lo fa il casaro, e a Pien de Vacia oltre a Mirta e il figlio salgono la compagna del figlio e un altro paio di aiutanti. L’altra figlia sta a malga Campon, con il suo compagno: è agrichef.

La passione per questo lavoro, conquistato nel tempo – “grazie alla fabbrica, che mi ha permesso di comprare terra” – Mirta deve averla trasmessa ai figli. «La montagna ce l’abbiamo dentro. La passione è per un Bellunese che pare essere rimasto indietro, per certi versi, ma anche per questo è così ricco, e sa dare tanto. A partire dai suoi prodotti. Il nostro formaggio non sarà magari il migliore del mondo, ma racconta la storia di una serie precisa di giorni delle nostre vite, e la scelta di contribuire a tutelare un pezzo di alpeggio, per non lasciare che la montagna ci caschi addosso». —



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