Sfida solitaria all’Urlo pietrificato la 24 ore di Pedrini sul Cerro Torre

«Cumbre» di Fulvio Mariani in edicola dal 15 settembre
Quel giorno la montagna fu generosa e regalò una parentesi di bel tempo
Chi l’ha detto che il tredici porta sfortuna? Il film «Cumbre» di Fulvio Mariani dimostra esattamente il contrario. E’ la ricostruzione della prima risalita al Cerro Torre in Patagonia, effettuata da Marco Pedrini insieme appunto a Fulvio Mariani. Loro erano i tredicesimi, quel giorno del 1995. Solo dodici erano saliti prima di Pedrini, e quel giorno tutto andò bene. Anzi, benissimo. Perchè il Cerro si comportò generosamente bene.


La montagna, che termina con l’Urlo pietrificato, è di quelle che non perdonano, e all’epoca era considerata la scalata più difficile al mondo. Si passa dai ghiacciai della base alla vetta di roccia e di neve, a quota 3102, con un buffo cappello di ghiaccio infilato sulla testa che sfida ogni legge di gravità. E’ il mondo dei cambiamenti repentini, e di venti che soffiano fino a 200 all’ora. Basta un niente per doversi arrendere, men che niente per rimetterci la ghirba.


Quel giorno Pedrini aveva deciso di salire in velocità, sfidando il tempo cronometrico e quello meteorologico. Ventiquattr’ore e tutto doveva essere fatto. Perciò si portò dietro solo uno zainetto, con dentro le scarpe e i ramponi da cambiare con le scarpette da roccia quando si fosse passati al ghiaccio. E non si portò corde od altro, solo l’indispensabile per qualche tratto in sicurezza, limitato in pratica gli ultimi trenta metri. Per il resto della scalata andò su leggero e veloce, puntando alla cima entro il calar delle tenebre. Poi si riprometteva di calarsi in doppia e con le lampade frontali nella notte, cosa che in effetti fece.


Per le prime centinaia di metri si issò su funi fisse, lasciate lì chissà da chi. Poi usò i chiodi fissi dei predecessori, ma senza assicurarsi, gli bastò agganciarli uno ad uno e tirarsi su, usandoli sia come appigli per le mani che per invisibili appoggi per le punte dei piedi su quella roccia liscia che più liscia non si può. Per il film, tuttavia, dovette adattarsi a portare su Mariani e poi ridiscendere per qualche tratto in modo che il regista potesse dal’alto filmarlo in salita.


Trovò per via il famoso compressore a benzina che si era portato dietro Cesare Maestri con Carlo Claus e Ezio Alimonta nel 1970 e che Maestri aveva inchiodato in parete per dimostrare agli scettici che in vetta c’era stato davvero. Compressore da 150 chili, che serviva a piantare i chiodi a pressione, che poi lui, scendendo, ruppe e rese inservibili negli ultimi 30 metri. Alle spalle c’era una polemica durata anni. Maestri c’era già stato con Toni Egger nel 1959. La salita per la parete nord, la prima, fu durissima ma andò liscia, al ritorno ci fu la tragedia: si staccarono dei blocchi di ghiaccio che all’andata parevano solidi, e una slavina travolse Egger trascinandolo giù. Maestri restò con lo spezzone di corda in mano. Egger morì. Maestri restò ferito per la rottura di un ancoraggio all’ultima corda doppia. La neve delle slavine cadute attutì il volo. Lo trovò Cesarino Fava molte ore dopo in stato confusionale nella neve. La polemica riguardò soprattutto il fatto se ce l’avevano fatta ad arrivare in cima oppure no. Perché Cesare Maestri aveva perso la macchina fotografica e con essa la prova dell’ascensione compiuta. Così nel 1970 Maestri pensò bene di fissare il compressore all’ultimo chiodo prima della cima: la firma dell’ascensione.


La via del compressore, o via Maestri, fu ripercorsa solo nel 1979 dall’americano Jim Birdwell. La prima invernale è di Ermanno Salvaterra nel 1985, che ritorna nel 2005. Tutte ascensioni che rimettono ogni volta in dubbio la prima di Maestri e Egger. Sicché la prima indiscussa, cioè senza polemiche, è dei Ragni di Lecco del 1974 (Daniele Chiappa, Marco Conti, Casimiro Ferrari e Pino Negri).

Pedrini nel film fa lo spiritoso, cavalcando in parete un compressore, ormai un ferrovecchio, come fosse una moto. Robe da archeologia alpinistica. Ma almeno serve a dimostrare che lassù qualcuno quel compressore l’avrà pure portato.


Sale senza materiali da bivacco, rischiando di restarci se solo il tempo avesse dovuto cambiare, cosa molto probabile sul Cerro Torre che regala bel tempo solo per uno o due giorni. I due precedenti tentativi in solitaria si erano risolti con un morto e un ferito. Sale per vecchie corde fisse (nella parte inferiore), che aveva riparato nei giorni precedenti, poi trova rifugio in un crepaccio: fuori la temperatura è di meno 20, dentro è sullo zero. Va con scarpette sui tratti in roccia, nello zaino ha delle speciali sovrascarpe in plastica per i tratti in neve. Dopo i primi 400 metri dello spigolo, la montagna si raddrizza e va su per altri 900 metri con un sesto grado in roccia e pendii in ghiaccio. Usa i chiodi a pressione rimasti lì dalla prima ascensione, ma anche il gesso per andare in libera. Sicurezza al minimo, per fare prima e poter rientrare entro le 24 ore. Ad ogni sosta tira su il sacco. Il tratto finale è fatto di ghiaccio spugnoso e inconsistente che si crea e si disfa di continuo, a causa del clima umido e dei venti forti. La sua è una corsa contro il tempo. Resta un attimo in cima a guardarsi intorno: da un lato è già buio, dall’altro ancora luce. Un gioco di ombre unico al mondo. Sotto, verso il ghiacciaio, il paesaggio è tutto nubi e ghiacci. Poi giù, a corda doppia nel buio.


Fulvio Mariani è cameraman, regista e soprattutto alpinista. Nato in Svizzera nel 1956 ha dedicato tutta la sua vita alla montagna e a riprendere le vicende che la riguardano, partecipando a numerose spedizioni o semplicemente ritraendone i protagonisti. Con Andrea Gobetti dirige, ad esempio, “L’uomo di legno” che narra dell’alpinista e scultore Mario Corona. Qui, in “Cumbre” racconta dell’impresa di Marco Pedrini, scalatore svizzero che per primo risalì in solitaria il Cerro Torre, nel sud dell’Argentina.


“Cumbre” è un classico della filmografia alpinistica, capace di riscuotere in più occasioni i favori di critica e pubblico. Ha ricevuto moltissimi premi, tra i quali la Genziana d’argento per il migliore film di alpinismo al Filmfestival di Trento nel 1987, il premio Mario Bello del Cai nel 1987, il Premio internazionale delle associazioni alpinistiche, ed altri riconoscimenti prestigiosi a Graz, a Le Diabletes, e in Canada.

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