Se anche la capra ha l'omeopata
Miracoli in Valmorel: la scommessa di Carla e Giuseppe Vibani

Carla e Giuseppe con i due figli
Sono finiti lassù, a due passi dal paradiso, con l’idea di cambiar vita. Tre anni e mezzo fa hanno comprato i terreni, rimesso a posto la vecchia stalla, ristrutturato la casa, sistemato il laboratorio, comprato 31 capre. Adesso ne hanno una cinquantina e ogni giorno fanno un quintale e mezzo di latte. Biologico. Certificato. Decisi a provarci. E la scommessa la stanno davvero vincendo, un passo dopo l’altro, a un ritmo determinato come quello dei montanari. Carla Vibani e Giuseppe De Toffol ogni giorno sono lassù, in Valpiana, cioè a un tiro di schioppo da Valmorel, poco prima della baita degli alpini. Vanno e vengono tutti i giorni (due ore al mattino, due alla sera) da Riva Us di Limana. Dove abitano, e dove continuano a lavorare. Lei è impiegata a part time in una ditta privata, lui è odontotecnico. Ma la loro vita, quella che si immaginano anche nel futuro, è sulla terra. Hanno fatto tesoro della tradizione familiare. A Riva Us c’è l’altro nucleo aziendale, dove coltivano fagioli Igp di Lamon.
Carla e Giuseppe sono in buona compagnia. C’è Tommaso, che va alle elementari, e Valentina che fa le medie. Tommaso assomiglia a un maghetto, e come lui racconta di magie e di miracoli. Valmorel, si sa, è proprio il posto giusto, e la loro azienda, «La Schirata» (che sarebbe lo scoiattolino), è in zona buona, proprio lì dove c’è il tariòl di Santa Rita, cara a Dino Buzzati. Una santa che liberava chi aveva perso la strada nel labirinto, che toglieva le bisce dalla gola degli animali, che salvava le spose dal pettirosso trasformato in gigante.
«Perché abbiamo deciso di provarci? Passione per la natura e per gli animali», racconta Carla, mentre Engie, nero pastore belga, fa il diavolo a quattro dietro le caprette. Partiti da zero. Prima hanno imparato a fare il latte e il formaggio, che non è mica facile. Anche perché il latte di capra è ben diverso da quello di vacca, le particelle di grasso sono molto piccole e la cagliata è più difficile da lavorare. «Non avevo idea di mungiture e parti», confessa Giuseppe. «Adesso abbiamo fatto un passo avanti, in maggio apriamo un piccolo laboratorio per i formaggi». Con spaccio aziendale: «E’ importante», spiega Giuseppe, «che la gente venga e veda come viene fatto e dove». Piccole quantità, per ora, poi si vedrà. Già fanno tomini, ricotte e robiole. Il problema rimane quello di sempre: il prodotto lo devi poi vendere, ci vuole una rete di commercializzazione. Il latte di capra, alla «Schirata» come in altre 7-8 aziende agricole, lo ritira Perenzin da Pieve di Soligo che si è ritagliato una sua nicchia nella rete dei negozi biologici e che ormai esporta anche negli Stati Uniti. Sorpresa: «Il Bellunese è uno dei bacini più grandi per il latte di capra biologico», dice Giuseppe. E dire che una volta la capra era considerata l’animale dei poveri. «Colpa del fascismo, alle capre vietò perfino il pascolo, a vantaggio esclusivo della mucca». Così, il gusto della gente si è legato al latte e al formaggio di vacca. Adesso però quello di capra è sempre più richiesto per le sue qualità. Dà un formaggio più leggero e delicato, e il latte è molto indicato per i bambini con problemi di intolleranza alimentare. Soprattutto se è «bio».
Ma attenti, biologico qui vuol proprio dire biologico. Con tanto di certificazione Icea (Istituto certificazione etica e ambientale). Che vuol dire? «Obbligo del pascolo, spazio vitale in stalla, mangime certificato biologico senza Ogm, altrettanto per il fieno, lo facciamo noi nei nostri 10 ettari di prati concimati col letame delle capre», spiegano Giuseppe e Carla. Non è semplice. «Vengono a controllare gli ispettori, e mese per mese devi fare la dichiarazione in ogni fattura del latte. Se trovano qualcosa fuori posto, ti mandano le loro prescrizioni. A noi non è mai successo».
Perché loro, Vibani&De Toffol, questo mestiere lo fanno per scelta di vita, scelta convinta: «Anche il nostro veterinario è omeopata, alle capre non diamo niente di chimico, dio ce ne scampi». Tradotto, vuol dire che il veterinario «prescrive rimedi particolari naturali in caso di patologie», ma soprattutto «bada allo stato di benessere generale degli animali, che così sono più resistenti. Da quando abbiamo adottato questa tecnica non abbiamo avuto mai un problema. Ottimi risultati». Altro che terapia, è la prevenzione che vale. Eccole qua, le caprette. Hanno tutte il loro bravo nome: Bruna, Maurizia, Demetra, Ginevra: scamosciate delle Alpi e razza Saneen. Una cinquantina, con le piccole che zampettano ben separate dalle grandi. Spazio, pulizia, fieno abbondante, occhio vispo. Linea latte, naturalmente. Però per metà nascono maschi, e di maschi lì dentro ne basta uno. Per gli altri, si sa, è Pasqua. L’occhio di Carla si fa triste. «Però spesso li diamo per così dire in affidamento a gente che ha bambini, giardino e amore per gli animali». Qualche femmina viene venduta ad altri allevamenti: «Hanno una buona genetica, e sul latte c’è richiesta». L’altro giorno ha scritto una signora da Livinallongo che si era presa due caprette: «Sono buonissime». Buonissime? «Ma no, diceva che sono affettuose». Perché sono abituate alle amorose cure. «Qui vengono anche da fuori», racconta Giuseppe. «C’è un nostro amico di Venezia che ormai è un abituè: viene sù ogni due-tre mesi per bersi il latte e si porta la famiglia».
Carla e Giuseppe puntano molto sul passaggio. Quassù la gente arriva anche per trovare loro, e far le coccole alle caprette. Ci portano i bambini, soprattutto sabato e domenica, quando «La Schirata» è aperta tutto il giorno. «Il consumatore oggi è più attento ed esigente, vuole vedere di persona come viene fatto il latte o il formaggio». La scelta di vita di Carla e Giuseppe è una scelta di ritmo: meno stress, meno velocità, meno corse, meno affanni. Se la salute ci guadagna, le tasche non si sa, ma loro ci puntano: «Fare agricoltura in montagna? Non puoi partire con grandi investimenti, i ritorni sono limitati. Non è facile, vuol dire perseverare contro le avversità del luogo. E contro la tendenza a produrre in grandi quantità, puntare sulla qualità. Abbiamo scelto di ottimizzare quello che avevamo, una vecchia stalla e una casa di montagna, restaurate e messe a norma. Una scelta giusta, che sta dando buoni risultati». Sono nel progetto provinciale della «Strada dei formaggi» (diventeranno una delle “fermate”), sono nel consorzio del fagiolo di Lamon (che producono), hanno tre cavalli (Tosca, Diana e Riuss), se potessero entrerebbero subito nel Parco Dolomiti Bellunesi (ma Limana è fuori e non pare voglia aderire per tenersi buoni i cacciatori), hanno fatto il corso per diventare Fattoria didattica. Anche perché quassù in Valpiana ci sono bellissime passeggiate. E il sentiero Dino Buzzati che parte da Giaon.
Le idee sono molte. «Valpiana e Valmorel sono adattissimi al pascolo. Qui è tutto fiori e profumi». Che si trasmettono al latte. E al formaggio. Adesso vogliono abbinarlo con le erbe aromatiche del posto. Finocchio selvatico, e fiori di tarassaco per farci il giallo sopra. Sono partiti dal basso per arrampicarsi in alto, come gli scoiattoli. Come schirate, appunto. E poi dite che i miracoli di Valmorel sono solo una storia?
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