Quando i partigiani liberarono 73 prigionieri

Travestiti da nazisti, si presero gioco dei carcerieri
Di Toni Sirena

BELLUNO. Sembra una scena di un film d’avventura, quella recitata il 15 giugno di 70 anni fa da un gruppo di partigiani. Passata alla storia come “la beffa di Baldenich” (inteso come carcere), l’operazione consentì di liberare con un’azione durata non più di mezz’ora 73 prigionieri politici: tutti membri della Resistenza che erano stati arrestati dai tedeschi nei mesi precedenti. Fra loro, esponenti di primo piano sia dell’organizzazione militare che di quella politica, cioè del Comitato di liberazione nazionale.

Quel giorno un reparto di otto tedeschi suonò alla porta del carcere portando con sé quattro partigiani arrestati e legati. Il maresciallo che li comandava, con tono perentorio e in pessimo italiano, intimò di aprire la porta perché doveva consegnare i prigionieri. Superate le titubanze dei carabinieri di guardia, ai quali era sembrato strana la mancanza di documenti di consegna, i 12 uomini entrarono. Alcuni rimasero nel cortile, altri si spostarono all’ufficio matricole. Qui i tedeschi spianarono le armi, strapparono il filo del telefono e rinchiusero carabinieri e guardie nelle celle. Solo allora capirono che quei tedeschi erano in realtà partigiani travestiti. L’unica cosa autentica era l’italiano approssimativo, perché alcuni di quei partigiani erano russi, che si erano uniti ai partigiani bellunesi dopo essere scappati dai campi di concentramento. Ma se quei carabinieri avessero prestato più attenzione, si sarebbero accorti che in tedesco “no” si dice “nein” e non “niet”, e che uno dei mitra che portavano era un’arma sovietica, e non tedesca.

Si aprirono dunque le celle, e uscirono i prigionieri, stupefatti e increduli. Poi il gruppo prese la strada della montagna. I più deboli, quelli che per le torture e i maltrattamenti non erano in grado di camminare, vennero indirizzati in case amiche. Gli altri, con una marcia faticosa, raggiunsero prima Bolzano Bellunese, poi le Case Bortot ed infine la casera ai Ronch, ben più in alto. Non era stato sparato un solo colpo.

Per questa operazione a Mariano Mandolesi “Carlo”, comandante della brigata garibaldina Pisacane, verrà conferita, dopo la guerra, la cittadinanza onoraria di Belluno.

Vennero liberati così Giovanni Banchieri, già esule in Francia e rientrato dopo l’8 settembre, Eliseo Dal Pont “Bianchi” che era stato arrestato già nel settembre del 1943 mentre organizzava i primi gruppi di resistenza, il capitano Francesco Pesce “Milo”, responsabile militare della zona di Belluno e poi comandante della divisione Nannetti, e molti altri.

Il colpo alle carceri fece infuriare i tedeschi che il 19 giugno rastrellarono Feltre, uccidendo sulla porta di casa cinque antifascisti (tra i quali il colonnello Angelo Zancanaro, medaglia d’oro alla memoria) e arrestandone 33 (tra i quali don Giulio Gaio e il rettore del Seminario, don Candido Fent). Altri venti arresti a Belluno, tra i quali Tullio Bettiol, Antonio Dalle Mule, Agostino D’Incà, Attilio Tissi, Giovanni Prosdocimi, Germano Sommavilla, Agostino Zadra. Persone di ogni colore politico e di ogni età (Bettiol aveva solo 15 anni, il padre Giorgio era riuscito a scappare): dai socialisti ai comunisti, dai democristiani ai liberali e agli azionisti.

Se questa fu la rappresaglia dei tedeschi, più forti furono però le conseguenze di quell’azione coraggiosa per lo sviluppo del movimento resistenziale. Questo, già attivo con il distaccamento Boscarin (nato il 7 novembre alla casera La Spasema sopra Lentiai, si era trasferito nella valle del Vajont, cambiando nome prima in Ferdiani e poi in Nannetti), contava anche su un forte numero di gruppi territoriali organizzati che agivano soprattutto di notte con azioni di sabotaggio, di prelevamento di armi, di predisposizione di depositi di viveri.

L’azione di Baldenich segnò una svolta: i giovani, tra i quali molti reduci dai fronti e sottufficiali dell’esercito con esperienza di guerra, decisero di passare alla lotta armata, salendo in montagna e dando vita ad un movimento che, in quell’estate del ’44, dilagò in ogni valle e paese costringendo i tedeschi a chiudersi nei presidi.

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