Ospedaletto militare sotto la valanga

SELVA DI CADORE. Si salvò solo un bimbo, Osvaldo Bellenzier, che stava in braccio alla mamma e fu ritrovato da un caporale degli alpini. Furono ben 28 le vittime della tremenda frana che nella notte del 27 maggio 1917 si staccò dal Piz del Corvo (m 2383) investendo le poche case e baracche di S. Fosca presso Selva di Cadore e l’ospedaletto militare 059, in cui erano ricoverati diversi feriti.
Si calcolò che a riversarsi a valle furono circa 4 milioni di metri cubi di neve e roccia, che seppellirono tra l’altro tre mulini, una latteria e una segheria. Perirono 23 militari e 5 civili, cui fu dedicata negli anni 20 una chiesetta-monumento, dotata successivamente anche di un campanile con una campana battezzata “dei Caduti”.

Il suggestivo tempietto, in seguito alla costruzione del Villaggio turistico Thule, venne spostato più a nord e, dedicato alla “Madonna della Neve”, ospita ogni anno il 6 agosto una cerimonia dell’Ana in ricordo delle vittime di tutte le guerre.
Tre lapidi furono dedicate ai caduti, la prima delle quali si trova all’interno, accanto all’urna che contiene i resti umani rinvenuti negli scavi del 1976-77, e recita: «Riposate in gloria e in pace – grandi oscuri eroi – a cui la valanga – interruppe il lavoro e la vita – che erano per la Patria». Le altre due ricordano rispettivamente i militari della 302. compagnia del 5° Reggimento Genio (un caporal maggiore e 11 soldati) ed i ricoverati nell’ospedaletto 059 (un caporale e 6 soldati).
Mancavano quindi i nomi di altri 4 militari caduti, ma, grazie ad una paziente ricerca compiuta recentemente da Silvia Musi con l’aiuto di don Lorenzo dell’Andrea e presentata sul sito www.pietrigrandeguerra.it, conosciamo oggi i nominativi di tutti i 23 militari caduti, due dei quali (Luigi Bolondi e Carlo Scordova, entrambi del X Regg. Artiglieria da Fortezza) furono tumulati nel sacrario di Pocol (tombe n. 550 e n. 4188). Le cause della morte nei documenti ufficiali variano da caso a caso: si va da “infortunio per fatto di guerra” a “ferite riportate in combattimento” o “in seguito a caduta di valanga”.
Vi sono anche degli errori e discrepanze che a 100 anni di distanza meritano di essere sanati: il nome di un soldato sulla lapide va corretto in Giovanni Avataneo (non Avattaneo), il luogo di morte di Giovanni Fortugno sull’Albo d’Oro dei Caduti non può essere Udine e un Giovanni Guaitani aveva in verità come nome di battesimo Fermo Leone.
Bisognerebbe infine uniformare sui diversi documenti la località, poiché a volte si dice “S. Fosca”, tal altra “Selva di Cadore”. Erano soldati provenienti da tutta Italia, appartenenti a svariati reparti: la maggior parte del 5° Reggimento Genio, ma pure del 222° Battaglione Milizia Territoriale, del 10° Reggimento Artiglieria da Fortezza, della 834a Centuria, della 2a Compagnia Salmerie.
Il più vecchio era nato nel febbraio 1876 in provincia di Cremona, il più giovane nel settembre 1885 in provincia di Benevento.
Tra i 5 civili morti c’erano anche Giacomo De Vido, abitante a Zoldo Alto, di anni 35, cantiniere militare, e un bambino di appena due mesi, Cesare Bellenzier, figlio di Emilio e Speranza Marini. Anche questo poteva considerarsi un paradigma di quel conflitto in generale e di quell’anno 1917 in particolare: militari e civili erano accomunati davvero in un unico destino e la morte non aveva pietà neppure dei neonati.
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