Maria Luisa De Cia uccisa in Primiero: trent’anni dopo ancora nessun colpevole

BELLUNO. «Vado verso San Martino». Un biglietto lasciato in cucina, poi più nulla. Maria Luisa De Cia esce dalla casa dei genitori a Sorriva di Sovramonte il mattino del 16 agosto 1990. Fa un piccolo acquisto nel negozietto del paese, poi prende la sua Panda rossa e scompare. Verso il tardo pomeriggio i genitori cominciano a preoccuparsi e chiedono l’aiuto di amici e volontari per far partire le ricerche, concentrate in Primiero e a San Martino.
Viene ritrovata la macchina, parcheggiata a qualche centinaio di metri da Malga Civertaghe, pochi chilometri da San Martino. Il corpo viene scoperto da uno dei volontari impegnati nelle ricerche, un suo compaesano, poco sopra la malga, attorno alle 15 del 17 agosto, 24 ore dopo il suo omicidio. È a pochi metri dal sentiero che porta al Velo della Madonna e chissà quante persone sono passate in quei due giorni lungo il sentiero, senza vedere o sentire nulla.
Il corpo della De Cia è ai piedi di un grande pino, nascosto alla vista da un masso e da un boschetto fitto di pini bassi (“una spessina”, come si chiama da quelle parti). È spogliata alla vita in giù, con un nastro adesivo nero attorno alla bocca, le gambe divaricate, le mani dietro la schiena (senza il laccio che le ha legate, che è stato portato via dall’assassino), con lo zainetto, gli occhiali e gli scarponcini messi in ordine lì vicino.
È stata uccisa con un colpo di arma da fuoco alla tempia, un proiettile di piccolo calibro, sufficiente a toglierle la vita. C’è stata anche una violenza sessuale, o almeno un tentativo. Ma tracce non se ne trovano: nè impronte, nè liquidi. Durante la notte è piovuto forte, è un periodo di grossi temporali serali.
Le indagini sono affidate ai carabinieri di Trento, competenti per territorio, e al pubblico ministero Giovanni Kessler. Il nucleo investigativo di Trento trasloca in Primiero e per settimane setaccia la zona, in cerca di testimoni, di qualcuno che abbia visto la De Cia, la mattina del 16 agosto, mentre scende dalla sua auto vicino a Malga Civertaghe e si incammina, probabilmente insieme al suo assassino, verso quella “spessina” dietro la quale viene uccisa.
Alla fine si troveranno solo due persone che nel primo pomeriggio del 16 agosto, dall’altra parte della valle hanno sentito un alto grido di orrore. È così che si dà un’ora precisa all’omicidio. Vengono interrogate centinaia di persone, sia nella valle del Primiero, che in Veneto, dove le indagini si concentrano.
L’ipotesi più accreditata è che ad ucciderla sia stato un uomo che lei conosceva bene e che all’appuntamento era andato preparato: pistola, nastro adesivo, legacci.
Maria Luisa De Cia, 28 anni, nata a Sovramonte, viveva da tempo lontana dal suo paese. Prima a Padova, dove si era anche iscritta all’Università e dove aveva lavorato negli uffici amministrativi della Safilo; poi negli ultimi mesi in provincia di Treviso, dove era andata a vivere, dalla sorella Carmen a Montebelluna e quindi a Cornuda, con il lavoro in una azienda del territorio. Si era anche legata da qualche settimana ad un giovane di Pordenone. Nei giorni di Ferragosto era in vacanza a Sorriva dai genitori. La sera del 15 ha ricevuto una telefonata. Trent’anni fa non c’era modo di scoprire chi era al telefono, con le tecnologie attuali si sarebbe saputo subito. La mattina dopo i genitori escono di casa, il padre va a Feltre, la madre a fare commissioni. Maria Luisa lascia un biglietto e parte.
Un anno dopo viene diffuso un identikit, costruito a molta distanza dall’omicidio, grazie a due testimonianze. L’identikit è quello di un uomo con un grande ciuffo di capelli, ripreso di profilo e di fronte. Qualcuno ci vede delle somiglianze con foto che sono state scattate ai funerali della De Cia. Ma tutti i controlli effettuati non danno risultati. E due anni e mezzo dopo l’omicidio, Giovanni Kessler chiede l’archiviazione. —
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