Trent'anni dal giallo irrisolto di Primiero: «Un peso non aver risolto quel mistero»
Maria Luisa De Cia uccisa in Primiero: trent’anni dopo ancora nessun colpevole. L’ex pubblico ministero: «Abbiamo fatto tutto il possibile con le tecniche di allora. Non c’erano testimoni né reperti»

L'ex pm Giovanni Kessler
BELLUNO. «Vado verso San Martino». Un biglietto lasciato in cucina, poi più nulla. Maria Luisa De Cia esce dalla casa dei genitori a Sorriva di Sovramonte il mattino del 16 agosto 1990. Fa un piccolo acquisto nel negozietto del paese, poi prende la sua Panda rossa e scompare. Verso il tardo pomeriggio i genitori cominciano a preoccuparsi e chiedono l’aiuto di amici e volontari per far partire le ricerche, concentrate in Primiero e a San Martino.

Maria Luisa De Cia
Viene ritrovata la macchina, parcheggiata a qualche centinaio di metri da Malga Civertaghe, pochi chilometri da San Martino. Il corpo viene scoperto da uno dei volontari impegnati nelle ricerche, un suo compaesano, poco sopra la malga, attorno alle 15 del 17 agosto, 24 ore dopo il suo omicidio. È a pochi metri dal sentiero che porta al Velo della Madonna e chissà quante persone sono passate in quei due giorni lungo il sentiero, senza vedere o sentire nulla.
A trent’anni di distanza «pesa ancora non aver risolto questo mistero». Giovanni Kessler, allora sostituto procuratore a Trento, ricorda la difficile indagine sull’omicidio di Maria Luisa De Cia, scavando nella memoria per raccontare quella che a tutti gli effetti è una sconfitta, «che fa però parte del nostro lavoro: abbiamo davvero fatto il massimo, usando le competenze che erano disponibili allora».
Cosa ricorda dei primi momenti dell’indagine sulla morte della De Cia?
«Le difficoltà si sono palesate subito. L’omicidio era avvenuto all’aperto, in un bosco. Il corpo della giovane donna è stato trovato dopo un giorno: e durante la notte aveva anche piovuto molto. Abbiamo fatto davvero tutto il possibile per recuperare i reperti, che purtroppo le condizioni atmosferiche avevano già compromesso. Ricordo che abbiamo chiamato i rocciatori della Guardia di finanza per scandagliare il dirupo che era a pochi passi dal luogo dell’omicidio, alla ricerca dell’arma. Ma non l’abbiamo trovata».
L’arma appunto, anche questo è rimasto un grande mistero.
«Appena avuta la notizia dell’omicidio ho fatto subito arrivare un patologo della Medicina legale di Padova, perchè ispezionasse il corpo prima che venisse portato via. Arrivò in quel bosco sopra Malga Civertaghe ancora prima di me. E lì, già subito, si capì che identificare l’arma sarebbe stato difficile. Da subito il medico legale ha ipotizzato che fosse un’arma artigianale, non convenzionale, di piccolo calibro. Ma non siamo mai riusciti a capire che arma fosse. E nessun reperto importante è stato trovato, Dna o impronte digitali, che ci potessero aiutare».

L'identikit
Un altro ostacolo è stata la mancanza di testimoni. Come li avete cercati?
«In ogni modo possibile. Abbiamo tappezzato il Primiero con i volantini, chiedendo la collaborazione di tutti, residenti e turisti, abbiamo battuto a tappeto gli alberghi. L’omicidio è del 16 agosto, in pieno periodo di ferie, con persone che vanno e vengono, ma noi le abbiamo cercate tutte. Il nucleo investigativo dei carabinieri di Trento si trasferì in pratica a Fiera di Primiero dove rimase a lungo. Anch’io andai sul posto per giorni. Eppure alla fine delle indagini abbiamo trovato solo due persone che all’ora dell’omicidio, attorno alle 14 del 16 agosto, hanno sentito un terribile grido dall’altra parte della valle. Niente altro. Nessuno che l’abbia vista con il suo assassino dopo che aveva lasciato la macchina a poche centinaia di metri da Malga Civertaghe; nessuno che l’abbia vista mentre passava accanto alla malga, che era affollata, o lungo il sentiero che sale verso il Velo della Madonna. Nessuno».
Un anno dopo, quasi nei giorni del primo anniversario, avete diffuso un identikit. La ricostruzione però sembrò fin da subito incerta.
«L’identikit venne fatto molto tempodopo l’omicidio. Lo abbiamo realizzato mettendo a confronto due testimonianze. La prima è quella di una persona seduta fuori dal bar di Ponte Oltra che vide arrivare una macchina che parcheggiò girata verso il Primiero. Poco dopo arrivò da Sorriva la macchina della De Cia e le due auto partirono, davanti la Panda rossa della donna, dietro l’altra macchina. Era passato tanto tempo dal fatto e la persona che vide la scena non seppe darci una indicazione sul tipo di macchina dell’uomo. L’altro testimone era un autista che si trovò le due auto davanti e non riuscì a superarle, se non dopo parecchio tempo. Ovvio che un identikit realizzato in questo modo, a mesi di distanza, sia poco attendibile. Ma non avevamo in mano proprio niente e ci siamo attaccati a qualsiasi cosa».
Quale è stata la vostra ipotesi principale sui motivi dell’omicidio?
«Noi eravamo tutti molto convinti che non poteva essere un omicidio casuale. Era difficile pensare che avesse trovato la morte per caso, per un incontro sbagliato con uno sconosciuto. Doveva essere una persona che lei conosceva, con cui si era data appuntamento».
Si parlò molto della telefonata ricevuta la sera prima, a Sorriva, nella casa dei genitori, con cui potrebbe aver dato l’appuntamento a qualcuno.
«Ce ne parlò il padre, che era profondamente sconvolto da quanto era accaduto. Ma non abbiamo avuto altri riscontri. Certo, le indagini si sono subito dirette verso le sue amicizie, passate e presenti, abbiamo passato al setaccio gli alibi di tutti coloro che la conoscevano e la frequentavano. Ma dalla sua vita privata non è emerso nulla, non c’erano ombre, non c’erano misteri. Ho parlato a lungo con la sorella, con cui Maria Luisa De Cia aveva un rapporto stretto. Il ritratto della donna emerso dalle nostre indagini è che avesse una vita tranquilla, il lavoro, la montagna, le vacanze nella sua casa. Sono andato anche in Germania per parlare con un uomo che aveva conosciuto».
È stato un caso clamoroso, quello dell’omicidio De Cia, un caso non risolto.
«C’era molta emozione, perchè tutti si poteva identificare con la vittima, una persona per bene, tranquilla, a cui era accaduto qualcosa di misterioso, senza un motivo conosciuto. C’era anche molta apprensione, molta paura».
Dopo due anni e mezzo di indagine è arrivata l’archiviazione.
«L’ho chiesta perchè non c’era più nulla che si potesse fare, avevamo scandagliato ogni aspetto della storia. Ma le indagini per omicidio si possono riaprire senza problemi, se ci sono nuovi indizi o nuove strade da percorrere».
Cosa prova a ricordare questo caso, dopo tanti anni?
«Provo un peso, un senso di fallimento, anche se questo fa parte del nostro lavoro di indagine. A volte basta anche un po’ di fortuna, per risolvere un caso. Noi non l’abbiamo avuta». —
IL FATTO
«Vado verso San Martino». Un biglietto lasciato in cucina, poi più nulla. Maria Luisa De Cia esce dalla casa dei genitori a Sorriva di Sovramonte il mattino del 16 agosto 1990. Fa un piccolo acquisto nel negozietto del paese, poi prende la sua Panda rossa e scompare. Verso il tardo pomeriggio i genitori cominciano a preoccuparsi e chiedono l’aiuto di amici e volontari per far partire le ricerche, concentrate in Primiero e a San Martino.
Viene ritrovata la macchina, parcheggiata a qualche centinaio di metri da Malga Civertaghe, pochi chilometri da San Martino. Il corpo viene scoperto da uno dei volontari impegnati nelle ricerche, un suo compaesano, poco sopra la malga, attorno alle 15 del 17 agosto, 24 ore dopo il suo omicidio. È a pochi metri dal sentiero che porta al Velo della Madonna e chissà quante persone sono passate in quei due giorni lungo il sentiero, senza vedere o sentire nulla.
Il corpo della De Cia è ai piedi di un grande pino, nascosto alla vista da un masso e da un boschetto fitto di pini bassi (“una spessina”, come si chiama da quelle parti). È spogliata alla vita in giù, con un nastro adesivo nero attorno alla bocca, le gambe divaricate, le mani dietro la schiena (senza il laccio che le ha legate, che è stato portato via dall’assassino), con lo zainetto, gli occhiali e gli scarponcini messi in ordine lì vicino.
È stata uccisa con un colpo di arma da fuoco alla tempia, un proiettile di piccolo calibro, sufficiente a toglierle la vita. C’è stata anche una violenza sessuale, o almeno un tentativo. Ma tracce non se ne trovano: nè impronte, nè liquidi. Durante la notte è piovuto forte, è un periodo di grossi temporali serali.
Le indagini sono affidate ai carabinieri di Trento, competenti per territorio, e al pubblico ministero Giovanni Kessler. Il nucleo investigativo di Trento trasloca in Primiero e per settimane setaccia la zona, in cerca di testimoni, di qualcuno che abbia visto la De Cia, la mattina del 16 agosto, mentre scende dalla sua auto vicino a Malga Civertaghe e si incammina, probabilmente insieme al suo assassino, verso quella “spessina” dietro la quale viene uccisa.
Alla fine si troveranno solo due persone che nel primo pomeriggio del 16 agosto, dall’altra parte della valle hanno sentito un alto grido di orrore. È così che si dà un’ora precisa all’omicidio. Vengono interrogate centinaia di persone, sia nella valle del Primiero, che in Veneto, dove le indagini si concentrano.
L’ipotesi più accreditata è che ad ucciderla sia stato un uomo che lei conosceva bene e che all’appuntamento era andato preparato: pistola, nastro adesivo, legacci.
Maria Luisa De Cia, 28 anni, nata a Sovramonte, viveva da tempo lontana dal suo paese. Prima a Padova, dove si era anche iscritta all’Università e dove aveva lavorato negli uffici amministrativi della Safilo; poi negli ultimi mesi in provincia di Treviso, dove era andata a vivere, dalla sorella Carmen a Montebelluna e quindi a Cornuda, con il lavoro in una azienda del territorio. Si era anche legata da qualche settimana ad un giovane di Pordenone. Nei giorni di Ferragosto era in vacanza a Sorriva dai genitori. La sera del 15 ha ricevuto una telefonata. Trent’anni fa non c’era modo di scoprire chi era al telefono, con le tecnologie attuali si sarebbe saputo subito. La mattina dopo i genitori escono di casa, il padre va a Feltre, la madre a fare commissioni. Maria Luisa lascia un biglietto e parte.
Un anno dopo viene diffuso un identikit, costruito a molta distanza dall’omicidio, grazie a due testimonianze. L’identikit è quello di un uomo con un grande ciuffo di capelli, ripreso di profilo e di fronte. Qualcuno ci vede delle somiglianze con foto che sono state scattate ai funerali della De Cia. Ma tutti i controlli effettuati non danno risultati. E due anni e mezzo dopo l’omicidio, Giovanni Kessler chiede l’archiviazione. —
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi
Leggi anche
Video