Le pietre che parlano

Sogmaister «racconta» i suoi mosaici
Dario Sogmaister e uno dei suoi mosaici
Dario Sogmaister e uno dei suoi mosaici
Da «taglialegna» a mosaicista. Non che Dario abbia mai fatto lavori nei boschi, più semplicemente il suo cognome, Sogmaister, vuol proprio dire «taglialegna». Era il cognome dei suoi avi, venuti chissà e quando come quaggiù a Santa Giustina Bellunese partendo dalle valli di Fiemme e Fassa. Origini ladine, dunque, quelle di Dario Sogmaister, che è diventato una delle firme più note dell’arte del mosaico, e non solo nel Bellunese. Il suo nome è nella Carta qualità del Parco che mette insieme sapori, colori, profumi e sentimenti. Perché lui lavora con i colori di queste terre. «Uso pietre del Piave, e del Vesès. Pietre legate alle mie origini, alla mia terra, a questo territorio». Pietre come frammenti di natura e di storia, cioè gli elementi fondanti del Parco. Pietre del cuore.


Lui è nato a Santa Giustina, e qui abita con la moglie Gemma, che gli fa le pubbliche relazioni e gli tiene la contabilità, e il figlio Rudi, non a caso perito minerario uscito dalla scuola di Agordo. Lavora in quello che lui chiama garage e che gli altri chiamano studio. Laboratorio artistico, insomma. Vengono fin da Brescia per vederlo al lavoro, ha esposto a mostre importanti in Italia e all’estero, anche a Parigi. Autodidatta («Se dicevo a mio papà che volevo fare una scuola d’arte mi avrebbe preso per matto»), la passione per il mosaico gli è venuta all’improvviso, come un lampo, dopo averne visto uno a Efeso vecchio di duemila anni. Il soggetto era profano, era raffigurata una prostituta che ammiccava ai passanti indicando la sua «bottega». Dario, ritornato a casa, incominciò invece a fare madonne. Un po’ di mestiere già lo aveva, scolpiva anche il legno. Ma forse andava bene per i cartoni. E difatti era uno degli animatori del carnevale e si dedicava a disegnare carri mascherati in cartapesta. Da lì al mosaico il passo è stato breve, anche se non immediato. Dal legno è passato alla pietra.


E’ iniziato tutto tredici anni fa. Il primo mosaico fu una madonna, il secondo il mulino di Sanzan. Ma i soggetti spaziano dal sacro alla vita quotidiana, dal paesaggio ai ritratti. Prese dal Piave i primi sassi: «Sassi di casa mia. Uso materiali poveri com’era la cartapesta dei carri. Mi ha sempre attirato questo aspetto». Disegna il soggetto, stende il cartone sul banco, lo copre di carta velina e poi, centimetro per centimetro, stende la colla e fissa le tessere. Che sono pezzetti di pietre, scegliendo i colori. Marmo rosa del Peralba, preso lì dove nasce il Piave, porfido e dolomia, la pietra che dà il nome alle nostre montagne. Bianca e bella da far vedere alla gente. «Peccato che dalle nostre parti manchi l’azzurro. Non si trova proprio». Spesso i soggetti sono tratti da vecchie fotografie, spesso sono su commissione: «Ma adesso», spiega, «sto rifiutando lavori, voglio avere il tempo di seguire la mia ispirazione». Sta preparando una mostra sui lavori di una volta, da esporre a San Vito. Per il Parco sarà presente da questa settimana: un rapporto stretto e appassionato, tanto che il mosaico su villa Binotto porta la sua firma.

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