La trovata della cordata


Non c’è nessuno che abbia un po’ di sale in zucca che oggi si metterebbe in cordata per comprare Alitalia pensando di avere qualche ritorno finanziario. Ma le dichiarazioni che Silvio Berlusconi va sbandierando da qualche giorno sulla questione Air France e su possibili nuovi interventi di cordate stanno facendo un danno assai peggiore di quello che attiene alle sorti della nostra compagnia di bandiera e dello scalo di Malpensa. Il guasto è non solo finanziario, ma anche istituzionale, e lascia presagire un metodo e fini che ci fanno ritornare ai peggiori anni dell’interventismo statale e ai danni che questo si è portato con sé, e che, alla fine, sono culminati con la valanga di Tangentopoli.


Sembrerà eccessivo un giudizio di questo genere, ma basta guardare ai dati di fatto della querelle che si aperta. Alitalia non è come la Sme, di cui a suo tempo Berlusconi, su sollecitazione di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, bloccò la vendita con una fantomatica cordata. Non è cioè un affare per chi voglia investire i suoi quattrini. Alitalia è il risultato drammatico di decine di errori fatti in questi anni, tentativi di salvataggio estemporanei che coinvolgono, anche, e in prima fila, uomini che oggi fanno capo alla sua maggioranza. A partire dagli esponenti della Lega, che hanno gestito a lungo la compagnia e quel buco nero che è oggi Malpensa. Nocivi sono stati i rapporti della politica con gli aeroporti milanesi, a cominciare da Linate, che ha cannibalizzato Malpensa. Alitalia dunque richiede un intervento manageriale drastico. Non ci sono guadagni finanziari a breve, a meno che lo Stato, qualche banca, o qualche imprenditore appositamente sollecitato, non abbia deciso di buttarci quattrini per convenienze di altro tipo.


E qui veniamo al secondo punto: i gruppi citati ieri da Berlusconi. Mediobanca ha decisamente smentito di avere in testa un disegno di questo genere. Salvatore Ligresti è un finanziere vicino a Berlusconi. L’Eni è ancora dello Stato e per giunta il suo presidente Paolo Scaroni è sotto riconferma. Il terzo gruppo, la Benetton di Sintonia, ha consistenti partecipazioni in infrastrutture che hanno a che fare con concessioni statali. Questi ultimi due hanno dichiarato, seppur più tiepidamente e sotto pressione della Consob, di non essere interessati e di non avere sul tavolo, per ora, alcun dossier. Figuriamoci che cosa devono essergli costate quelle dichiarazioni, visto che hanno dovuto smentire qualcuno che forse tra poco siederà a Palazzo Chigi e potrà mettere più che una voce nei loro affari.


E qui veniamo al terzo punto. Questo metodo di trattare gli affari fa tornare alla mente quella commistione tra affari e politica, tra dare e avere tra gruppi industriali che in qualche modo devono tenere in conto politica e uomini di governo, che ci riporta indietro di venti, trenta anni, ai tempi peggiori delle Partecipazioni statali. Le dichiarazioni degli esponenti del Partito della libertà - che qui «si gioca l’italianità» - che lo Stato deve rimanere in qualche modo dentro l’Alitalia, aggiungono solo una ciliegina su una torta dal sapore già disgustoso. Poco c’entrano qui l’Alitalia e il futuro di Malpensa: non c’è nessun disegno industriale dietro. C’è solo l’intuizione di Berlusconi di vendere una ricetta in cambio di voti, mischiando nazionalismo da poco conto, promesse di salvataggio di posti di lavoro e una questione del Nord che - lo abbiamo visto leggendo Jori su queste pagine - riguarda solo la Lombardia e il futuro del suo aeroporto.


Come finirà è difficile dirlo, visto che il consulente di Berlusconi, Bruno Ermolli, promette di mettersi al lavoro «in nome del Paese» solo dopo che cadrà l’ipotesi Air France. E’ più chiaro invece il destino che attende il Paese quando un presidente del Consiglio in pectore, per raggiungere il suo obiettivo elettorale, propone simili soluzioni e simili metodi.

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