«La stanza terrena», un gioiello

Applausi per la prima rappresentazione moderna del lavoro di Antonio Miari
D'accordo. Culturalmente, l'epoca non è tra le più felici. Ovunque ci si volti, c'è qualcuno sempre pronto a ribadire che i soldi non ci sono, che bisogna tagliare, che i tagli si fanno a partire dalle cose meno necessarie. Che: se non ci sono fondi per rifare i marciapiedi, come si pretende di averne per uno spettacolo, un festival, una rassegna d'autore? Eppure, anche in un'epoca come questa - in cui sembra che le feste del pastìn debbano bastare a riempire la pancia e la testa di tutti - i miracoli, certe volte, succedono.  Sono il frutto di un grande sforzo collettivo di volontà: di un impegno corale. Quello che è successo, sabato sera, al Teatro Comunale - dove è stata messa in scena la prima rappresentazione moderna de "La stanza terrena" di Antonio Miari - è, di fatto, un miracolo.  Prima di tutto, un'opera. Un'opera giusta: nelle dimensioni, nelle proporzioni, nel dispiegamento dei dispositivi scenici.  Perchè, ammettiamolo, ostinarsi a voler portare l'Aida al Comunale è come pretendere di cucinare la pasta e fagioli in un tegame per le uova. Semplicemente, non ci sta.  Poi - e questo non è poco - un'opera di qualità, che, a risorse esterne, ha messo insieme in modo intelligente talenti locali: la voce sempre più matura di Chiara Isotton, tanto per cominciare; ma poi la direzione di Paolo Da Col, i costumi dell'Atelier Raptus & Rose, la trascrizione di Melita Fontana, il coro della scuola di musica. Per non parlare del lungo elenco di sponsor, sostenitori e maestranze a cascata (dagli oggetti di scena al trucco, dalle riprese alle foto).  In terzo luogo, l'accortezza della regia, affidata a Giorgio Sangati. Fare di ristrettezza virtù non è cosa facile. Eppure, dell'assenza fondale, di scenografia, di cambi, nessuno si è accorto, né ha sentito la mancanza.  La prima versione moderna de "La stanza terrena" ha una regia severa e lineare: bianco, nero, un poco di grigio. Sono i gesti a riempire la scena, i movimenti, i tic, i caratteri, le pettinature esagerate, le gonne e le martingale voluminose. Altro non serve.  Infine, c'è l'opera in sé: quella messa in scena la prima (e forse anche ultima) volta nei possedimenti di Landris dal nobile Antonio Miari. Resuscitata, catalogata, restaurata, restituita a vita. E qui si impone una riflessione.  Antonio Miari aveva di che vivere bene: terre, soldi, un palazzetto sul Canal Grande. Il suo pallino per la musica avrebbe potuto coltivarlo semplicemente come tanti altri nobili mecenati del suo tempo: un ozio. Un piacere. Una occasione per circondarsi di artisti e belmondo. E invece - sorpresa - non escono solo delle note dalle 94 carte in cui "La stanza terrena" è conservata: perchè quest'operina è veramente bella. Fresca, godibile, ammiccante. E per niente provinciale: non solo Antonio Miari si dà dei modelli alti. Non solo, dalle sperdute lande bellunesi, non si accontenta di mirare basso e mangiare in trattoria. Antonio Miari si siede a tavola con il meglio: della sua epoca, e di quella appena precedente. Mozart. Salieri. Rossini.  E dai suoi personaggi pretende. Il conte pedante, la cameriera furba, il servo tonto, la nobildonna contegnosa: la doppia coppia, protagonista del canovaccio di successo sulla fedeltà messa alla prova, ha in sé tutte le sfumature possibili, dalla commedia dell'arte al dramma in musica.  Sulla scena del Teatro Comunale, Chiara Isotton è una statuaria donna Emilia: primadonna che non sbaglia una nota, e regala saggi di belcanto tra cavatine velocissime e acuti da brivido. Il suo controcanto - Elena Filini nella parte di Lisetta - è una cameriera dalla presenza scenica spumeggiante: un caratterino che non si lascia circuire, e guida, a un tempo, la vendetta della sua padrona, la propria difesa e la conquista definitiva dell'amato Bartolomeo. E' Lisetta a cucire insieme i rapporti tra i protagonisti: nell'interpretazione di Elena Filini, una eroina determinata e moderna. Risponde agli stilemi noti del servo goffo, invece, il Bartolomeo di Vincenzo Di Donato: veloce soprattutto nella fuga, alla maniera di Leporello. A completare il quartetto, Mauro Borgioni: il nobile Don Roberto, dalla voce profonda e impettita.  Il tutto, sulla ribalta del Comunale, strappa applausi: a scena chiusa e aperta. Niente tutto esaurito, come invece meritato.  E ora, che succederà de "La stanza terrena"? C'è da augurarsi che non passino altri duecento anni prima di risentirla.  

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