La sera andavamo in via Mezzaterra

Belluno e la sua casa chiusa nel ricordo di un testimone prima della legge Merlin
Si cantava così: “E in mezzaterra l’è la zia Pina/ l’è la rovina di noi alpin”. La ballata popolare era destinata alle modifiche obbligate dalle contingenze storiche, cosicché, nel periodo di massima attività della “casa” a cavallo fra guerra e dopoguerra, la rovina, nel ’43/45, divenne quella dei repubblican (noi, acerrimi nemici, dicevamo repubblichin) e, a liberazione avvenuta, quella del partigian.


L’anonimo librettista, forse per ragione di scansione metrica, aveva peraltro collocato la zia Pina in via Mezzaterra, quando in realtà l’immobile dava sul vicolo Santa Maria dei Battuti, al civico n. 1, vicolo che collegava via Mezzaterra alla via Santa Maria dei Battuti vera e propria.  Per la verità non risulta che l’impianto di siffatta attività, di cui diremo più avanti, avesse suscitato ostilità, o almeno imbarazzo di sorta, fra i reggitori della città, autorità civili e religiose, in palese contrasto apparendo con l’intitolazione del transito ad una santa; quanto meno le cronache non ne diedero notizia e la contraddizione insanabile non risulta abbia avuto esiti polemici.


  Va osservato peraltro che l’immobile, destinato ai piaceri proibiti dei bellunesi, era collocato, ad inizio di secolo, al numero 17 di via della Motta (che gli spiritosi, allusivamente, avevano trasformato in via della Potta), tant’è che i più anziani giocatori di briscola solevano dire, quando totalizzavano 17 punti, “diciassette fa mona”.  Al giorno d’oggi, ben pochi e solo i più anziani sanno che la casa della zia Pina era ad un piano, con portone borchiato di metallo, spioncino anti-intrusione e persiane rigorosamente chiuse; a lato, altra porta conduceva all’abitazione della tenutaria. Chi abbia occasione di passare oggi per il breve vicolo, noterà che l’immobile è stato sostituito qualche anno fa da alcuni manufatti ad uso garage, né più si individua il fatidico numero uno; è stato inoltre abbattuto il vespasiano allora esistente sotto il volto, laddove gli avventori/utenti della casa estrinsecavano le loro necessità idriche, una volta espletato il rapporto mercenario.


  E’ utile qui una riflessione. I bellunesi, gente pratica e sostanzialmente laica, non menavano scandalo dell’esistenza in centro città (e Mezzaterra era allora il centro della città) dell’accogliente casa del peccato. Si tenga conto del fatto che tale rifugio, soprattutto di militari alpini e studenti sfaccendati, operava a minima distanza dal Seminario e dalla Sede Vescovile e poi, per qualche anno, dalla scuola media, frequentata dai rampolli della città e della provincia. Da Porta Dojona a Porta Rugo, via Mezzaterra offriva la parte più vivace ed affollata del centro cittadino: numerose le osterie e le locande (ora pressoché scomparse), ove i pellegrini, raggiunta la Mecca dei loro peccaminosi desideri, potevano rifocillarsi e riprendere fiato od anche sorbirsi un cordiale per farsi coraggio prima di varcare la porta dell’agognata meta.  Ultima sosta, prima o dopo il gran passo, era il bar Helvetia, che tutti chiamavano Kelvetia, in spregio al corretto lessico.


Ma l’esistenza della casa della zia era anche motivo di accesa dialettica campanilistica: nella rivalità strapaesana tra Feltre e Belluno, i cittadini del capoluogo la contrapponevano, in termini di prestigio, ai feltrini che, da parte loro, dovevano accontentarsi di ospitare il manicomio provinciale. Forse non è fuor di luogo osservare che la nota casa era entrata pacificamente a far parte del volto della città, così come le Porte, il Torrione e il campanile dello Juvara.  La norma, che regolava a quei tempi siffatta attività, definiva tali strutture quali “case di meretricio”. In verità nella vulgata comune ed anche nella letteratura altre definizioni erano invalse: casa chiusa, casa di tolleranza, casa di appuntamento, persiane chiuse, postribolo, bordello, baito (dialettale), ma da noi era prevalsa la più semplice dizione di zia Pina o esattamente di casino. Oggigiorno quest’ultimo termine, molto diffuso fra nobili e plebei, intellettuali ed illetterati, giovani e anziani, nella Tv e nella carta stampata, ha perduto il suo originario significato, altro non volendo dire che confusione, alterco, mancanza di regole, inammissibile caos. Mentre al contrario, l’opificio di cure fisiche gestito dalla zia Pina appariva ben ordinato e vietato ai perditempo ed agli avvinazzati.


La vigilanza era assicurata dai carabinieri della vicina caserma e dalla ronda militare e l’attività vi si svolgeva pacificamente e senza contrasti fra le “lavoranti” e i rispettivi “clienti”. E’ ben vero che talora il locale veniva invaso dagli universitari a conclusione delle “feste delle matricole” (rito oggi in disuso) o dai coscritti dopo la visita di leva, quale liturgica affermazione della raggiunta maturità fisica. Un tanto veniva benignamente tollerato, nel mentre l’addetta alla cassa (vulgo: la ruffiana) rivolgeva il rituale appello agli sfaccendati che pretendevano di aver rifugio nella casa, per sottrarsi ai rigori dell’inverno, in quanto l’ambiente era riscaldato dai termosifoni. E l’appello, sempre uguale, era: «Giovanotti, in camera, non facciamo flanella! E le tasse, chi le paga?».


Le tasse, come diremo, erano soprattutto l’imposta Generale sulle entrate - Ige- - né mai il patrio fisco aveva normato balzello più congruo alla fattispecie.  Chi leggerà questa nota potrà legittimamente chiedersi quale sia l’origine delle informazioni che qui vengono narrate. Si trattò di un episodio assai singolare, se non unico.  Nei giorni della liberazione della città, ai primi del maggio ’45, potei intrufolarmi, profittando dell’inevitabile confusione di quel momento storico, a far parte di una ronda partigiana, disposta dal comandante della piazza. Per la verità, io, a quel tempo, dimostravo un’età maggiore di quella effettiva e, oltretutto, nessuno si sarebbe peritato di chiedermi i dati dell’anagrafe. Io ero il più giovane, ma anche i miei compagni di avventura non avevano raggiunto l’età canonica dei diciott’anni, obbligata per varcare legittimamente l’uscio della casa.


Ai due lati del vicolo, le autorità d’occupazione avevano fatto dipingere una scritta in nero che avvisava “Off limits”. Probabilmente, ritengo, a scopo di prevenzione sanitaria per i loro militari smaniosi di sesso.  Comunque, varcammo l’agognata soglia con atteggiamento consono alla nostra funzione. Sul muro, in fondo al corridoio, appena entrati, appariva l’icastico e minaccioso avvertimento: “Chi non ama pan, vin e figa, Dio lo castiga”.


Sulla sinistra si affacciavano due stanze di attesa, munite di confortevoli panchine: l’una riservata ai clienti comuni e l’altra ai clienti più di riguardo per censo e per frequentazione (per questi ultimi, la ruffiana provvedeva a chiudere la porta della prima stanza, al fine di tutelarne l’identità e la privacy). Sulla destra del corridoio v’era il regno della ruffiana (in genere una già lavorante, ora pensionata per ragioni d’età), che provvedeva alla distribuzione delle “marchette”, che altro non erano se non semplici gettoni metallici con su inciso il nome della casa.  Va precisato che le marchette davano diritto ad una semplice prestazione, limitata nel tempo, circa 5-10 minuti a seconda della virilità o dell’età dell’utente. Peraltro costui poteva anche, se dovizioso, programmare un quarto d’ora o anche una mezz’ora di intrattenimento e in tal caso la “signorina” ne faceva avviso alla ruffiana tramite un convenzionato squillo di campanello situato a lato del letto.


  Va detto che il termine oggi in voga di puttana era rigorosamente bandito e considerato da tutti di cattivo gusto: le lavoranti erano tutte “signorine”, ancorché ammogliate, ed avevano tutte un “nome de plume”.  Avevano di nome Eva (per via della mela), Leda (per via del cigno), Lesbia (e qui il discorso era sommamente allusivo, attesochè faceva intravvedere la possibilità di incontro a carattere saffico con l’amica del cuore, rapporto questo assai frequente nella casa), Pompea (che non era, con ogni evidenza, la translitterazione al femminile del triunviro-console della Roma antica).


  Ricordo che in quei giorni successivi alla fine della guerra la casa dava ospitalità anche ad una ragazza con il turbante in testa, segno che la giustizia popolare l’aveva punita per il suo collaborazionismo “orizzontale” con l’occupante. La predetta ci lanciò uno sguardo carico d’odio. Comunque, le signorine si presentavano poco o punto vestite e sollecitavano a salire le scale, che conducevano alle 5 camerette del primo piano, esaltando le loro qualità e prestazioni erotiche. Al sollecito si univa anche la ruffiana (tal Wanda), che soleva richiamare l’attenzione degli esitanti avventori con frasi del tipo: “C’è la bella bolognese, brava di bocca”; con ciò intendendo riferirsi alla presunta superiorità orale delle femmine felsinee. (Curiosamente, molti anni dopo, nel ’53, allorquando il “Rapporto segreto” di Krusov addebitò a Giuseppe Stalin una sicura predilezione per le circasse di origine caucasica, mi fu riferito che l’incitamento di rito era divenuto: “C’è la bella circassa, brava di bocca”).


  Sul muro, dietro alla cassa delle marchette, un cartello ammoniva “Vietato portare armi o bastoni animati”, da qui dipartiva la scala per le 5 stanze delle signorine, stanze modestamente arredate, con un letto matrimoniale in fondo al quale era stesa una tela cerata ad evitare che i copulanti, specie gli alpini, nella foga della ginnastica amatoria, sgualcissero con i loro scarponi, le lenzuola e le coperte.  Di fronte al letto c’era il lavabo ove le lavoranti, terminato il rapporto, in genere senza profilattico (il cosiddetto guanto di Parigi) sollecitavano il cliente a detergere l’attrezzatura genitale e, di sopra al lavello, spiccava altra indicazione, “mingere dopo il coito”, incomprensibile ai più, sia nel verbo che nel sostantivo. Le signorine lavoravano 15 giorni di fila, inclusa la domenica, tutti i santi giorni, salvo l’ora dedicata al pomeriggio alla pennichella.  Scaduti i 15 giorni del loro turno, le ragazze, a bordo del taxi di fiducia (Bruno Pisciutta), con bagaglio a seguito, si recavano a prendere il treno in stazione ove incontravano le loro colleghe del cambio e così lo stabilimento poteva operare senza soluzione di continuità.


Alcuni personaggi pittoreschi, noti in città, si avvicendavano in quegli anni quali uomini di fatica, Renato da Borgo Prà, il sordomuto Tormen da Cirvoi e da ultimo Givolai. Varia umanità frequentava la casa della zia e ho memoria di talune voci che indicavano stimati insegnanti delle locali scuole che, il 27, giorno di San Paganin, dilapidavano in giornata quasi tutto lo stipendio. Si diceva anche di un sacerdote, persona estroversa e ben conosciuta, anche perché portava seco un colorato ombrello, che un giorno ebbe a dimenticare il suo parapioggia all’interno della casa, ove fu rinvenuto da un buontempone, che provvide a pubblicizzare il ritrovamento.


Non so se si sia trattato di leggende o solamente di dicerie di chiacchieroni, ancorché le voci fossero persistenti. Altre voci raccolsi in seguito fra i miei coetanei, che mi guardavano con invidia, perché avevo potuto varcare la porta di quell’Eden delle delizie.  Più in là negli anni, gli universitari vantavano le loro prodezze amatorie nelle città sedi di accademie: Firenze (via degli amorini), Bologna (via delle oche), Padova (via Santa Agnese). In quest’ultima città taluni vantavano la loro frequentazione alla Villa Suprema, volgarmente denominata “al cazzo d’oro”, visto che quivi la prestazione aveva il costo di ben 500 lire.  Gli anni passavano e anche la memoria di quella mia avventura giovanile, di quel mio lontano approccio al tempio del peccato. Senonché, per fortuito evento delle umane vicende, la «casa» era destinata a coinvolgermi nella mia attività professionale quale avvocato.


La proprietà dell’immobile era intestata a due soci di fatto, uno dei quali, certo Romagna, risiedeva a Milano (laddove si occupava di alcuni altri locali dello stesso genere) e l’altro, invece, a Belluno, ove conviveva, more uxorio, con tal Regina, intestataria della licenza di Pubblica Sicurezza (per normativa, la licenza d’esercizio poteva essere data solamente ad una donna, in genere ex lavorante).


Alla fine del ’56 i rapporti fra i due soci si erano deteriorati al punto da sfociare in una azione giudiziaria avanti il Tribunale di Belluno per lo scioglimento societario e la divisione o la vendita dell’immobile. Il collega avvocato Adolfo Orlandini, mio collaboratore a Venezia, al quale si era rivolto il comproprietario/socio di Belluno, per essere assistito nella causa, pensò bene di associarmi quale procuratore e domiciliatario in loco. L’incarico professionale, per un legale all’inizio dell’attività, era assai delicato, di tutto riguardo e ben accetto anche perché adeguatamente remunerato. La causa civile fu assegnata al dr. Arcangelo Mandarino. L’avversario si era rivolto al compianto collega, avv. Mario Pietriboni.


In sostanza la ragione che aveva originato il dissidio andava ricercata nel fatto che il Romagna di Milano accusava il suo socio di Belluno di non aver correttamente suddiviso il 50% degli introiti netti ricavati dall’opificio detratte le spese e i balzelli fiscali. La documentazione offerta in causa attestava che mensilmente venivano rimesse da Belluno a Milano ben 500.000 lire di allora (lascio al lettore il calcolo in euro: alcune decine di migliaia del conio attuale).  Secondo il socio di Milano la rimessa mensile era troppo esigua; il consocio di Belluno, a sua volta, argomentava che, nel computo del guadagno netto, si doveva tener conto del fatto che l’utenza dei militari fruiva di notevole sconto sulle marchette, né egli era venuto meno all’accordo societario. Nel frattempo, anche a seguito di una risoluzione dell’Assemblea dell’Onu, che aveva fatto obbligo agli Stati membri di porre fine allo sfruttamento del sesso, il nostro Parlamento aveva iniziato l’esame della legge proposta dalla nostra coraggiosa corregionale, di Rovigo, senatrice Lina Merlin.


  Per la verità il mio cliente si dichiarava convinto che la proposta di legge non avrebbe goduto del suffragio maggioritario delle due Camere, perché - a suo dire - le gerarchie ecclesiastiche si erano espresse contro la chiusura e perché la lobby dei tenutari era in grado di condizionare il suffragio dei parlamentari. Il che, com’è noto, non avvenne e il 20 settembre 1958 gli stabilimenti del sesso mercenario chiusero i battenti fra gli alti lai e le grida di indignazione dei benpensanti. In vista della discussione alle Camere, la causa civile ebbe rapido svolgimento e attesoché l’immobile non risultava divisibile in natura, il giudice diede incarico al Ctu, ing. Mario Durigon, di stilare un elaborato che straggisse il valore dello stabile. Il consulente dell’Ufficio calcolò in 13 milioni dell’epoca il valore della casa della zia Pina, a tener conto delle servitù di non elevazione gravanti sull’immobile e della svalutazione commerciale derivante dall’uso fino ad allora praticato.


 Si trattò allora di ricercare un compratore del manufatto, ormai deserto delle lavoranti e dei frequentatori (Indro Montanelli e Orio Vergani versarono copiose lacrime per le decisioni del patrio legislatore: altrettante lacrime non versarono le ragazze che poterono riacquistare la loro libertà, anche sessuale, a persiane ormai aperte). Fui incaricato di rintracciare un acquirente. In quei giorni la Federazione comunista di Belluno era stata sfrattata dal palazzo Minerva, in via Rialto. Ne proposi l’acquisto all’allora dirigente del Pci, on. Francesco Giorgio Bettiol, il quale però non volle neppure prendere in esame l’ipotesi. «Ti immagini gli avversari a dire che i comunisti sono andati a finire in casino»? Di altro avviso fu un procacciatore di affari che operava per conto di certi religiosi della Trevigiana. Almeno così disse, a conferma del noto aforisma: «Pecunia non olet».
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