La lunga prigionia in un “Diario”
PIEVE DI CADORE. È in vendita nelle librerie e nelle edicole del Cadore il “Diario clandestino” di Mario Monico, che racconta l’internamento in Germania di un soldato italiano Imi negli anni 1944-1945.
Sono stati oltre 640.000, i militari italiani internati in Germania dopo l’8 settembre 1943, dei quali oltre 50.000 non sono più tornati. Tra quelli fortunati che hanno fatto ritorno alle loro case, c’è il caporalmaggiore degli alpini Mario Monico, nato il 24 settembre 1908 a Thiene, in provincia di Vicenza, che ha portato con sé il diario dei giorni vissuti nei campi di concentramento di Wietzendorf, Lunenburg e successivamente a Wintermoor, dove il 18 aprile 1945 ha visto arrivare il primo carro armato americano.
Poco prima della sua morte, lo passò al figlio Giovanni, solo perché sicuro che il suo sacrificio sarebbe stato capito. Nella busta che il padre diede al figlio, non c’era solo il diario scritto a mano, ma anche una corposa documentazione della vita nei lager, diari di comilitoni, relazioni del comando italiano del campo 83, stese anche nell’estate del 1945, quindi a guerra terminata.
Una miniera di preziose notizie che solo ora, ricorrendo il “Giorno della Memoria”, il figlio Giovanni è riuscito a pubblicare, «per non dimenticare», dandogli il titolo di “Diario clandestino”.
È un racconto preciso e conciso, che inizia il giorno di Pasqua, il 9 aprile 1944, quando Mario Monico si trovava già da sette mesi nel campo di Wietzendorf, in Germania, come “Internato militare italiano”.
In quel giorno, non è chiaro il motivo, inizia a scrivere il diario, che scrive con cadenza pressoché giornaliera fino al 24 luglio e che riprende per soli quattro giorni il 15 febbraio 1945, quando uscì da quel campo per essere trasferito a Lunenburg e successivamente a Wintermoor, dove il 3 aprile riprende il racconto degli ultimi 15 giorni della sua prigionia. Una prigionia che termina con l’arrivo del primo carro armato americano.
La testimonianza è sufficiente per far rivivere al lettore le emozioni e i sentimenti provati in prigionia e che al suo ritorno raccontò con fatica alla sua famiglia che alla fine del conflitto risiedeva a Tai di Cadore. Non gettò però alle ortiche la sua esperienza, ma la conservò gelosamente per molti anni.
Il rientro non fu uno dei più felici per lui, come per centinaia di migliaia di ex Internati, trattati dalla politica di quel tempo, come testimoni scomodi. (v.d.)
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