Jacopo De Bertoldi: da La Rocca a Londra i progetti del regista

«Quando ero giovane Belluno mi stava un po’ stretta adesso restarci è come fare una seduta di psicanalisi»
Di Martina Reolon

BELLUNO. Una storia straordinaria, dalle caratteristiche quasi romanzesche e, a tratti, incredibili. E sono proprio questi aspetti ad aver spinto Jacopo De Bertoldi, documentarista, sceneggiatore e regista bellunese, a realizzare un film su Nino La Rocca, grande e conosciutissimo personaggio della boxe, che tra l’altro pochi giorni fa era proprio a Belluno.

«In realtà il tutto era nato con l’intenzione di fare un documentario e ho realizzato un video promo», precisa De Bertoldi, classe 1969, «poi sono stato contattato da un produttore, che si è mostrato interessato e mi ha proposto di fare un film». De Bertoldi si dice «scaramantico» e non rivela quindi troppi dettagli sul suo nuovo lavoro: «Di certo posso dire che La Rocca era mio idolo quando ero ragazzino. Poi ho avuto la possibilità di conoscerlo di persona a Roma. Siamo diventati amici e la sua storia, che è pazzesca, mi ha subito appassionato. Sul pugilato sono stati fatti tanti film e le storie si assomigliano un po’ tutte. L’intento sarebbe quello di riuscire a realizzare qualcosa che si distingua».

«Le caratteristiche personali di La Rocca che emergono dialogando con lui», dice ancora De Bertoldi, «sono la simpatia, il suo essere un “attore” e la sua capacità di divertirsi e scherzare con tutti». Ma il lavoro sull’ex pugile, passato alla storia per aver portato sul ring una boxe innovativa e rivoluzionaria, non è l’unico progetto che il documentarista bellunese sta portando avanti.

A breve sarà infatti a Londra dove ha finito di girare un piccolo resoconto di un lavoro in cui è impegnata una produttrice con cui collabora.

«Un lavoro dedicato ai festival europei che vedono protagonisti giovani registi e produttori», dice ancora De Bertoldi. «Se tutto va bene dovrei partire poi con un progetto dedicato alla pittrice Carla Accardi. In ogni caso, ciò che in questo momento mi sta impegnando di più è un documentario a cui sto lavorando da un paio d’anni, su cricket e immigrazione».

Di questo De Bertoldi ha già realizzato un radio-documentario, “Run Out!”, finalista al Festival di Bellaria nel 2013 e vincitore della medaglia d’argento all’ultima edizione del Urti Radio Grand Prix di Parigi. Ma come è iniziata l’avventura di De Bertoldi nel mondo del cinema e dei documentari? Nato a Belluno (i suoi genitori sono i titolari dell’agriturismo Casa De Bertoldi, ndr) vi è restato fino a 18 anni. Non appena terminata la scuola superiore, si sposta a Venezia per gli studi universitari. Inizia poi a frequentare la scuola di cinema diretta da Ermanno Olmi, “Ipotesi Cinema”, e in quest’ambito dirige alcuni cortometraggi e comincia a realizzare piccole produzioni indipendenti.

«Ho avuto sin da quando ero piccolo la passione per il cinema», sottolinea, «e appena è emersa l’occasione mi sono trasferito a New York dove, oltre a lavorare come aiuto alla regia e delegato di produzione in numerose produzioni indipendenti, ho cominciato a collaborare con la New Line Cinema».

La tappa successiva è Los Angeles, dove De Bertoldi segue la produzione di alcuni film, tra cui “S1m0ne” e “The Cell”. Nel 2003 è tornato in Italia, dove ha potuto lavorare per la Miramax. Nel suo curriculum anche la fondazione di una società di produzione, la Vidoc, un cortometraggio, audio documentari per Radio Rai e per Radio Svizzera Italiana. Per l’Istituto Luce uscirà a breve il documentario “La scuola d’estate”, grazie alla collaborazione con Jacopo Quadri. Nonostante le esperienze all’estero e quasi 14 anni vissuti a Roma, De Bertoldi - il cui sogno sarebbe girare un western sulle Dolomiti - non dimentica le sue radici, anzi.

«Quest’anno sono rimasto di più a Belluno ed è stato come fare una “seduta di psicanalisi”, nel senso che ho ritrovato i luoghi e le persone di un tempo e mi sono riscoperto», spiega. «Belluno, quando ero ragazzino, mi stava un po’ “stretta”, ma quando ero all’estero avevo voglia di tornarci. C’è da dire, però, che il lavoro che faccio è difficilissimo da portare avanti soprattutto nel nostro paese, in quanto i produttori sono sempre stati abituati a lavorare con il denaro pubblico, appoggiati dal Ministero. Oggi questo non è più possibile e la logica dovrebbe cambiare».

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