Il taccuino di viaggi di White
Di recente pubblicata da Nuovi Sentieri la prima traduzione italiana

Ai resoconti di viaggiatori inglesi nelle Dolomiti si aggiunge ora, nella prima traduzione italiana, il taccuino di viaggi di Walter White che negli anni 60 e 70 dell'Ottocento percorse in lungo e in largo quello che allora si chiamava il "Tirolo meridionale" (Dolomiti e dintorni, Nuovi Sentieri ed., traduzione di Gianni Rossi e Cleto Gnech). White è un personaggio singolare. Nato nel 1811, fece dapprima l'ebanista come il padre, poi emigrò in America, ritornò a Londra, divenne bibliotecario della Royal Society. Si dedicò alla scrittura ma soprattutto ai viaggi, affascinato dalla montagna, soprattutto dalle Dolomiti. Non è un cultore dell'arrampicata, non pratica l'alpinismo, sale qualche cima secondaria ma per sentieri, non per rocce verticali, il suo scopo è di ammirare panorami non di conquistare le vette. Viaggia in carrozza per i fondovalle o a piedi per i passi, si ferma alle locande, passeggia per i paesi. Lo spinge al viaggio una inesauribile curiosità per la straordinaria natura delle Dolomiti ma soprattutto per la gente, le usanze, il lavoro e la vita dei posti, le lingue e i costumi. Ci regala così un affresco di ombre e di luci del territorio dolomitico, diviso tra tedeschi, italiani e ladini, agli albori dello sviluppo turistico che in quegli anni si stava soltanto intuendo. I lettori sono avvisati fin dalla prima pagina: non troveranno nel libro "descrizioni di avventure pericolose", niente "gesta spettacolari" né "temerarie arrampicate", troveranno invece "prati e foreste, strade e fiumi, uomini donne e consuetudini, opinioni e superstizioni". Il programma, insomma, è subito tracciato. Fin dalle prime righe è dichiarata l'avversione di White per il mondo delle città e delle soffocanti pianure, che rende trasparente la scelta di White per la montagna, quasi un rifugio dell'anima. Uno dei resoconti dei suoi numerosi viaggi dolomitici parte da Venezia, città meravigliosa sì, "Regina dell'Adriatico", ma piena di "schiamazzi e palazzi", con i suoi "vicoli squallidi e tetri, con il suo orgoglio e la sua povertà", dove i mendicanti si nutrono di frutta marcia e "l'arte mostra quanto poco si possa fare per la moralità e dove le zanzare sfidano la filosofia". Quello urbano è dunque il mondo dei contrasti, delle divisioni, delle ipocrisie. Le Dolomiti sono invece "una regione romantica e selvaggia", un "paese meraviglioso", e tuttavia sempre minacciato da frane ed esondazioni. Gli è però estraneo il mito del buon selvaggio. White guarda con realismo ai molti personaggi che popolano il suo racconto: osti, falciatori, boscaioli, vetturini, mandriani, casari, ma anche medici, kellerine, viandanti, guide, compagni occasionali di viaggio. Da illuminato progressista, non risparmia certo sulfuree frecciate ai preti ("... le scuole sono state strappate dalle mani dei preti, c'è speranza che la conoscenza e l'illuminismo prevalgano sul bigottismo e la superstizione, per lungo tempo predominanti in questa bella terra di montagna"), eppure descrive con simpatia un gruppo di pretini che scherzano in carrozza, e fulmina invece un prete, direttore di un giornale sudtirolese campione di fanatismo bigotto che predica bene e razzola male: fa bella vita, fiuta tabacco, fuma, beve, canta e gioca a carte nelle osterie. Annota sempre ciò che potrà meravigliare i lettori inglesi. I vetturini hanno la strana abitudine di scendere ad ogni fermata e chiedere, prima di fiondarsi nella bettola: "Bianco o rosso?". A Cortina gli uomini giocano a bocce e a morra, le donne lavorano con piccone e carriola. Descrive Bolzano come città "niente affatto bella" ma "interessante perché è un miscuglio tra Italia e Germania: qui il nord termina e il sud inizia". A Belluno giunge pochi mesi dopo il terremoto del 1873 e ne descrive le strade ancora ingombre di macerie, le case crollate, le chiese lesionate e le ali dell'angelo del campanile precipitate. Ma le descrizioni cittadine sono solo parentesi di poche pagine. Il resto delle 300 pagine è immerso nelle valli, nelle visioni magiche delle Dolomiti che trascolorano repentinamente nelle nubi o nel sole, e quando il suo sguardo spazia dalla cima di qualche montagna raggiunta a fatica, ci appare come folgorato dalla sindrome di Stendhal. Passa in rassegna, con acute osservazioni, tutti i gruppi dolomitici e tutte le valli, da Fiemme alla Gardena, dall'Agordino al Cadore, dalla Pusteria all'Ampezzano, dal Primiero alla Valsugana. Non c'è paese che tralasci di descrivere, soprattutto Cavalese, Paneveggio, Predazzo, Moena, Bressanone, Dobbiaco, Caprile, Alleghe, Agordo, Falcade. Incontra vescovi in visita pastorale ma anche le tracce di Garibaldi, riporta le annotazioni lasciate sui libri d'albergo da famosi predecessori come Gilbert e Churchill e Amelia Edwards. Descrive lo stato delle strade (già all'epoca peggiori sul versante bellunese), talvolta disagevoli carrarecce o addirittura sentieri in cengia, la condizione delle locande, i mestieri locali (come la fabbricazione dei giocattoli in val Gardena). Un mondo perduto che è interessante riscoprire anche alla luce dei riscontri con l'oggi.
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