Il Muro di Berlino e l’alibi della paura nella storia indagata da Ezio Mauro

l’incontro
«I raccolti sono andati male, la gente è povera e scontenta, solo nell’ultimo anno sono fuggiti in 200 mila e sono tutti medici, ingegneri, tecnici. Dobbiamo costruire un anello d’acciaio intorno alla città. Ma dobbiamo muoverci in segreto. Diremo che siamo minacciati». Il Muro di Berlino nacque così, da una telefonata “sincera” tra Nikita Krusciov, allora capo del Cremlino, e Walter Ulbricht, dittatore tedesco orientale, undici giorni prima del 12 agosto 1961. È uno degli aneddoti raccontati da Ezio Mauro, ieri mattina, alla platea di studenti che ha riempito il Teatro Comunale per ascoltare il giornalista, ex direttore di Repubblica, oggi impegnato in reportage che sviluppano grandi eventi della storia, dalla Rivoluzione Russa alla crisi di Berlino, ma anche vicende minori quanto emblematiche, come quella di Luca Traini.
L’evento, organizzato da “Scuole in rete” con Comune, Fondazione Teatri, Diocesi e Caritas, si intitolava “L’Occidente, tra paura e muri”, perché Berlino non è e non sarà l’unico esempio di sottomissione di un popolo, né la politica smetterà di usare la paura come strumento di condizionamento psicologico delle masse.
Pochi mesi fa il mondo ha festeggiato i 30 anni della caduta del Muro di Berlino: «Un anniversario», sottolinea Ezio Mauro, «è un gong che suona, un nastro che si riavvolge. E ci si chiede: io dov’ero, cosa stavo facendo, cosa so e quali buchi devo colmare di quella vicenda?». E così, da giornalista, non da storico, nel 2019 Mauro ha indagato e scovato documenti ricostruendo i 28 anni della Berlino divisa e poi mese per mese ciò che accadde nel 1989: «L’anno magico in cui è cambiato il mondo, dissolvendo i concetti di Est e Ovest costruiti sui mattoni di quel muro».
La narrazione è arricchita dai video dei reportage e dalla lettura di alcuni brani dei libri di Ezio Mauro, capace di catturare i ragazzi con ritmo, dati e storie, in un racconto che ti prende per le spalle e ti scuote, ma con garbo.
In un sabato notte di piena estate 45 mila blocchi di cemento divisero Berlino per 127 chilometri; 69 degli 81 varchi di confine furono chiusi e intere famiglie furono separate inesorabilmente, costrette a vedersi solo a distanza dall’alto di apposite piattaforme. Non mancano i dettagli truci: i 5 mila cani affamati e addestrati con la “banca degli odori degli elementi sospetti”, i tentativi di fuga falliti ma anche i pochi che ebbero successo. Oltre trenta tunnel, mongolfiere, sommergibili e perfino catapulte: scappare diventa un’ossessione per gli abitanti della DDR, che in pieni anni ’60, mentre nel resto del mondo esplode la modernità, si ritrovano imprigionati. I delatori si moltiplicano, arruolati dalla Stasi con ricatti, privilegi e la lusinga di guardare dietro allo specchio. La società spia se stessa, le mogli spiano i mariti e con la minaccia della paura si diffondono la sfiducia reciproca e il sospetto fino all’estremo delirio di onnipotenza che porta la Stasi a pratiche di decomposizione mentale alterando la realtà. Nei 28 anni dell’assedio la polizia segreta arriva a falsificare referti medici, a bombardare gli oppositori con le radiazioni, perfino a spostare gli oggetti di casa per farli impazzire. Gli atleti della DDR vengono imbottiti di steroidi a loro insaputa e scoprono che pure la salute dei loro figli risulta compromessa.
Il totalitarismo annienta la città, ma non può durare e la Stasi è la prima ad accorgersene e a iniziare la distruzione di una tale massa di documenti da far esplodere una caldaia.
«L’alba della caduta del Muro inizia nel 1980», spiega Mauro che c’era, ha visto, vissuto e scritto, «con le proteste operaie di Solidarność a Danzica; fino al ponte aereo occidentale su Berlino durato per 15 mesi prima della resa».
Ma cosa ci insegna la storia di Berlino? Cosa resta oggi di quei 28 anni di muro? Mauro racconta, non dà giudizi storici e così si passa alla seconda parte dell’incontro, quella ispirata al suo libro “L’uomo bianco” nato dalla vicenda di Traini, che nel febbraio del 2018 attraversò Macerata in auto sparando a tutti i “negri” che vedeva per strada. «Come siamo passati dal 1989 a uno che spara a nove neri come in un videogioco? È difficile fare parallelismi tra una storia universale come quella di Berlino e una storia estrema come quella di Traini», spiega Mauro. «Ma non può esistere uguaglianza se non si fonda sulla libertà dell’individuo e sul rispetto delle persone. Qualcosa si è guastato nell’Occidente che dovrebbe essere terra di democrazia e di diritti. Traini ci spiega il paradosso dove stiamo andando. Ci dice quale scala stiamo scendendo».
La metafora della scala è potentissima nella voce di Ezio Mauro, che ancora una volta non ha scritto per giudicare e anzi, ha voluto andare a fondo nella vita di Traini tanto da intrattenere una corrispondenza costante con il ragazzo in carcere, al quale manda dei libri sollecitandolo ad approfittare del tempo per studiare. “Ho capito che siamo tutti dei disgraziati”, gli scrive il giovane, che il giornalista non giustifica quando ne racconta le sventure, ma si chiede: «Cosa c’è che non va se nessuno, quella mattina al bar, sentendolo dire “adesso vado a sparare ai negri”, lo ha fermato né gli ha esclamato “che cazzo dici?”. Forse sarebbe bastato».
Mauro alza i toni sollecitando le coscienze: «Traini non è un folle. È uno che si è spinto laggiù, al confine con l’elemento estremo e radicale. La sua storia parla di noi, di quanto siamo scesi lungo quella scala, di dove siamo arrivati ai gradini più bassi modificando il nostro modo di essere e permettendo a noi stessi cose che in passato non ci saremmo mai concessi e mai autorizzati a fare e a dire. Fino a non reagire quando qualcuno in un bar dice “vado a sparare ai negri”». —
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