Fatturato Lattebusche, obiettivo 100 milioni senza dimenticare la storia

CESIOMAGGIORE. Una storia fatta certamente dai numeri – l’obiettivo del 2015 sono i 100 milioni di fatturato – ma soprattutto dalle persone che hanno costruito un’azienda all’avanguardia sul piano tecnologico e dell’innovazione senza mai perdere di vista l’obiettivo principale di dare dignità al lavoro dei soci e contribuire a sostenere l’agricoltura di montagna. Lattebusche ha festeggiato ieri i 60 anni di attività. Lo ha fatto con una cerimonia organizzata agli impianti sportivi di Pradenich alla presenza di autorità, politici, dipendenti e soci, conclusa con un pranzo curato dalla Coop La Fiorita e dall’Enaip.
Un’occasione per mettere in fila le tappe di questa avventura imprenditoriale avviata nel 1954 da 36 soci che con coraggio diedero vita alla prima cooperativa della Vallata Feltrina diventata poi Lattebusche e ora diventata un soggetto forte del Veneto nel settore lattiero caseario. Sessant’anni non sempre facili, soprattutto all’inizio, di cui quaranta con Antonio Bortoli nella veste di direttore generale. È toccato a lui ripercorrere questa avventura che con le sue vicissitudini è lo specchio della comunità bellunese, fatta di gente laboriosa, ma spesso diffidente e legata ai campanili.
I primi anni durissimi. Lattebusche nasce quendo in provincia di Belluno c’erano 300 latterie: «Pochi proprietari, tanti coloni, un’economia di sopravvivenza», ha spiegato Bortoli per inquadrare il momento in cui 36 soci trovano il coraggio di andare oltre la latteria turnaria e fondano la cooperativa. «Ci sono tanti produttori, ognuno con piccole quantità, manca l’esperienza e le resistenze sono molte. Campanili, gelosie e invidie sono duri da superare e in 15 mesi si avvicendano tre responsabili».
Gli anni 70. «È il periodo in cui nasce l’idea, poi rivelatasi vincente, di valorizzare la qualità del latte bellunese. Il progetto viene presentato alle varie latterie bellunesi che lo bocciano. La cooperativa decide di andare avanti da sola e nasce il marchio Lattebusche. L’attenzione si sposta dalla sola produzione al mercato, nasce il logo azzurro e viola che riconduce alla terra e alla genuinità e si comincia a curare l’innovazione con scelte coraggiose, talvolta contrastate ma che danno risultati importanti.
Gli anni 80. I consumi crescono e Lattebusche vuole tenere il passo. È il periodo delle promozioni e delle sponsorizzazioni: «Un concetto non facile da fare accettare a tutti i soci», ha detto il direttore, «mentre le piccole latterie entrano progressivamente in Lattebusche. Nella maggior parte lo fanno per necessità. Tra le poche a compiere una scelta lungimirante c’è la latteria di mel. In altri caso, come a Castion troviamo una situazione debitoria disastrosa».
Lo sbarco fuori provincia. Accade nel 1988 con l’incorporazione della Clodiense di Chioggia: «Era venuto il momento di osare», sottolinea Antonio Bortoli, «l’alternativa era arroccarsi in guerre di posizione. Nella partita legata al salvataggio di Trevenlat ci rendiamo conto di non essere gradito e guardiamo altrove. Arriva l’incorporazione della Clodiense di Chioggia. D’altra parte la pianura ci offre quel mercato che è necessario per crescere e deve essere la montagna a prendere l’iniziativa». Seguiranno altre incorporazioni in provincia di Venezia e di Vicenza.Viene superato anche il caso Chernobyl grazie all’uso di fieno stagionato che ci permette di restare sul mercato con i nostri prodotti acquisemdo un vantaggio sulla concorrenza».
La qualità. È un pallino del gruppo dirigente di Lattebusche: «Nel 1991 Lattebusche ottiene il certificato Iso 9000 e nel 1995 è la prima azienda italiana del latte a ottenere il certificato Iso 9002. Il sistema di gestione ambientale, la tracciabilità del nostro latte, gli impianti ancora oggi all’avanguardia permette aumentare le vendite del latte, fenomeno che prosegue anche oggi anche se il mercato è di fatto in caduta libera».
Il prodotto simbolo. È il formaggio Piave che nel 2010 ottiene la Dop: «Nel 1965 il marchio del formaggio Piave è stato brevettato e questo lo ha salvaguardato da utilizzi impropri», ha detto Boltoli nella sua relazione. «L’ottenimento della Dop ha concluso un processo lungo di valorizzazione e la produzione è gradualmente salita fino alle attuali 350 mila forme».
Sempre più bar bianco. Lattebusche apre il primo nel 1969: «C’era curiosità intorno a questo “bar senza ombre” in un territorio dove gli adulti erano abituati a bere alcol. Nel corso degli anni sono avvenute tre ristrutturazioni e sono stati aperti altri bar bianchi nelle province della pianura. Dall’1 maggio ne funzionano altri cinque in provincia di Pordenone. Solo a Busche entra un milione di perosne ogni anno, in tutti i bar bianchi tre milioni».
L’ultima fusione. È quella con la latteria Molinetto di San Pietro in Gù che porta Lattebusche a diventare il primo produttore del Veneto di grana padano con il 44 per cento in Agriform, l’agenzia che commercializza il grana in tutto il mondo e fa decollare il fatturato e i ricavi per i soci.
Secessione alla rovescia. Lattebusche ha mantenuto viva l’agricoltura di montagna garantendo la raccolta in tutta la provincia, malgrado i costi molto più elevati: «È una delle nostre missioni assieme al sostegno delle iniziative sociali, culturali e sportive meritevoli», sottolinea Bortoli, che lancia anche una frecciata. «In un momento in cui alcuni comuni bellunesi voglio lasciare il Veneto, posso dire che continuiamo a ricevere richieste da allevatori del Trentino e dal Friuli che vogliono portare il latte da noi».
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