Cuore di padre, il sostegno per i figli
Lavinia l’amata, Orazio il prediletto, Pomponio la pecora nera della famiglia

Orazio il prediletto, Pomponio la pecora nera, Lavinia l’amata, la coccolata, la rimpianta. E poi Emilia, la figlia naturale uscita ben presto di scena. Si può ben dire che Tiziano fu fortemente attaccato ai figli, li amò e li protesse nonostante crucci e disavventure. Cercò sempre, con tutte le forze, di garantire loro un futuro. Orazio fece parte integrante della sua bottega. Pittore egli stesso, certo non dotato della straordinaria forza espressiva del padre, ma discreto artista e soprattutto buon organizzatore, braccio destro del Tiziano nel mandare avanti la bottega. Tutt’altra cosa da quel Pomponio gaudente e scapestrato, un po’ disonesto e senza arte né parte, amante soprattutto dell’uccellagione e della falconeria, al quale il Tiziano dovette per tutta la vita correr dietro per coprirne debiti e malefatte. Quanto a Lavinia, fu la figlia amata, ultima nata, la più piccola spesso effigiata nei dipinti. Nasceva Lavinia, moriva di parto Cecilia. In lei il pittore rivedrà sempre la moglie, la donna che aveva fatto scendere in laguna da Perarolo senza sposare subito: gli aveva dato due figli, prima che si decidesse a regolarizzare il rapporto.
Per Pomponio il «divin pittore» cercò rendite e benefici che lo mettessero al riparo, che gli garantissero il futuro. Per un dipinto ottenne per lui nel 1531 Medole dai Gonzaga, per molti dipinti non ottenne mai dai Farnese l’agognato e inutilmente inseguito beneficio dell’Abbazia di San Pietro in Colle, dove già Tiziano possedeva una casetta a Col di Manza con un piccolo podere e una casa procacciata in cambio della decorazione della facciata della chiesetta di Santa Maria Nova. Alla fine gli comprò il beneficio di Favaro (Sant’Andrea del Fabbro), acquistato a suo nome e ceduto al primogenito tre anni dopo. Lo aveva avviato alla carriera ecclesiastica, visto che non sapeva far altro, sperando si mettesse in riga. Ma Pomponio gliene aveva combinate di tutti i colori, s’era messo perfino a vendere qualche quadro di soppiatto.
Aveva dovuto intervenire a più riprese anche Pietro Aretino, il compare di Tiziano, e ne aveva legittimazione dal rapporto fraterno che lo legava al pittore e alla sua famiglia. Era insomma uno di casa e poteva permettersi di rampognare il Pomponio: «Certamente lo accoraste, con ciò che gli rispondeste ne la reprensione che vi fece l’altra sera in secreto, però che una protervamente detta, a chi lo ingenerò, da lo erede, lo preme più che qual si voglia durezza che ci usi chi ci procreò col suo seme, imperò che il figlio, parlando empiamente, ingiuria il padre; e il padre, sciogliendoli con asprezza contra la lingua, fa ciò che debbe». Insomma, era stata una sfuriata in piena regola per una ennesima malefatta di Pomponio, e lui aveva rimbeccato il genitore con altrettanta asprezza, venendo meno al suo dover di figlio verso un diritto di padre. Ma c’è di più nella lettera dell’Aretino, c’era quell’accenno all’erede. Già, perché Pomponio era il primogenito. E col senno di poi si può anche ben immaginare che Tiziano avesse minacciato quella sera Pomponio di diseredarlo, se avesse continuato così. Cosa che avvenne puntualmente. Nel testamento Tiziano aveva sostituito a Pomponio i nipoti, cioè i figli di Lavinia e Cornelio Sarcinelli, nel caso Orazio fosse morto senza discendenti. Cosa che avvenne con la peste del 1576 che si portò via sia Tiziano sia Orazio. Nulla spettava dunque a Pomponio, tutto andava ai Sarcinelli. Ne seguì una aspra lite giudiziaria, con Cornelio Sarcinelli, il cognato, che accusava Pomponio addirittura di aver rubato e distrutto il testamento.
Orazio invece fu sempre il figlio riuscito bene, il figlio diligente. Trascorse la sua vita all’ombra del padre ed anche la sua scomparsa è emblematica, travolto dalla bufera della peste poco prima che travolto ne venisse anche il padre. Esecutore fedele dei suoi ordini, organizzatore efficace della bottega e dei rapporti di affari e lavoro, bravo pittore a sua volta, Orazio lo ritroviamo costantemente presente, al seguito del Tiziano a Roma, a Firenze, a Venezia, in Cadore, anche nei lavori di bottega, ma insieme anche, ed anzi suo delegato, nel seguirne gli affari di crediti da riscuotere, o commerci e segherie. Finì puranco accoltellato in faccia da uno scultore delinquente a Milano, dov’era andato per incassare i ducati della pensione spagnola assegnatagli da Carlo V (anche quelli a lungo inseguiti), ma forse anche per procacciare commissioni e quadri da dipingere, sì da sollevare più che le rimostranze, le vere e proprie ire degli artisti locali che si vedevano i Vecellio piombati a far concorrenza a casa loro. E forse quel Leone Leoni aveva preso il coltello non soltanto per rapinarlo della borsa dei ducati. A Orazio Tiziano procacciò una pensione imperiale e gli passò la rendita della senseria del Fondaco dei Tedeschi, che gli avrebbe permesso di ben vivere.
L’amato Orazio fu probabilmente l’ultima fugace ombra di ritratto che dipinse Tiziano, quando già il figlio era stato portato al Lazzaretto: sul basamento di una colonna della Pietà, destinata ai Frari, aveva dipinto una tavoletta votiva, con loro due, Tiziano e Orazio, che alzavano supplici le braccia alla Vergine.
L’altra figlia, Lavinia, aveva rallegrato la casa di Biri grando con le sue grida infantili. Affidata, come Pomponio e Orazio, alle cure amorevoli della sorella Orsola, chiamata a Venezia a supplire la defunta Cecilia, era cresciuta splendida adolescente. E aveva conosciuto ad un ricevimento Cornelio in quel di Ceneda. Lì vicino, a Col di Manza, Tiziano aveva un suo buen retiro, ottenuto in cambio di tre pale per la chiesa di Castel Roganzuolo. Lui s’era innamorato e aveva chiesto la mano. Chissà perché Tiziano decise di aspettare cinque anni per le nozze. Forse si usava così. Forse, come scriveva supplicante ai suoi creditori (in particolare al grand’imperador Carlo V) affinché si affrettassero a pagarlo, perché non aveva abbastanza soldi per una buona dote. O forse perché faceva aggio una gelosia di padre. Certo è che la dote non fu poi enorme, un 1200 ducati che erano sì una buona somma anche per un nobile di provincia ma eran niente in confronto a quanto avrebbe dovuto spendere per un buon partito veneziano. Le nozze furono celebrate nel Duomo di Serravalle.
Quando Lavinia lasciò Venezia e se ne andò nella sua nuova destinazione, ai piedi delle Prealpi, la casa del Biri grando restò vuota. C’era solo il diletto e ubbidiente Orazio, mentre Pomponio era sempre occupato nelle sue cacce, forse anche cacce di donne.
Tiziano restò quasi tramortito dalla scomparsa di Lavinia, morta di parto come Cecilia. Era il sesto parto, dopo sei anni di matrimonio. Chissà, forse qualcuno di quei parti era stato gemellare. Dei nipoti Tiziano si ricordò per bene, quando decise di intestare loro l’eredità. Prima Orazio, poi i discendenti di Lavinia, saltando Pomponio a piè pari. Lavinia la bella, Lavinia che aveva posato più volte per il padre, Lavinia la fragile. L’unica figlia amata. Invece Emilia, figlia naturale nata da una relazione fugace con una domestica, fu presto dimenticata. Tiziano aveva pagato una buona cifra per assicurare una dote alla domestica. Ma delle origini paterne Emilia, diventata madre a sua volta, si ricordò quando nella chiesa di San Stin, nel gennaio 1573, mise nome Vecellia alla figlioletta.
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