Catherine e Monica ragni in pareteE poi anguane dentro la cascata

Destivelle, atleta eccezionale, insieme a Monica Dalmasso
Catherine Destivelle in parete
Catherine Destivelle in parete
Lo trovi scritto sui treni. «Ne pas se pencher au dehors», ovvero «è pericoloso sporgersi». Nicht hinauslehnen. Do not lean out of the window. Qui invece, sul Verdon in Francia, sporgersi è davvero pericoloso, ma se vuoi salire devi farlo. E naturalmente meglio guardare in alto, non in basso dove c’è qualche migliaio di metri di salto e un bel ruscello che scorre in fondovalle.


 «E’ pericoloso sporgersi» è il titolo del Dvd in edicola da domani insieme al nostro giornale, un capolavoro del cinema di montagna datato 1985. Un film sull’arrampicata sportiva che ha fatto epoca, opera del regista Robert Nicod (musica di Yann Gazay). Nicod è un cineasta e documentarista che si dedica con passione al cinema alpinistico o sportivo in ambiente naturale. Il film è un inno alla montagna, e risulta evidente che per Nicod montagna non vuol dire solo sport e parete, è anche bellezza allo stato puro, è tuffo nelle cascate e nei boschi, ed è una natura al femminile - a iniziare dalle protagoniste del film - quella che riesce con fascino e delicatezza a rivelarci.


 Le verticalissime pareti del Verdon perdono qui tutta quella retorica dell’impresa alpinistica, fatta di «conquiste», «sfide», «battaglie con la roccia» che troppo spesso avvelena un approccio leggero e complice con la montagna. «E’ pericoloso sporgersi» è la prima opera da regista di Robert Nicod, con la quale nel 1986 si è aggiudicato la Genziana d’argento al Filmfestival di Trento per il migliore film di sport.

 Il film si apre con Catherine Destivelle e Monica Dalmasso sulla vetta del Verdon. Guardano giù, distese sulla pancia, la parete verticale che si inabissa. Poi si calano e incontrano con un buongiorno un paio di zuzzurelloni (Alain Baltel e Marc Lecomte-Durovil) che si dondolano appesi in parete dove hanno passato la notte.


 Sembrano in vacanza, come stesi su un’amaca, bevono birre, fumano sigarette e suonano l’armonica, in compagnia di un cagnetto imbragato che se ne sta proprio tranquillo sull’abisso come fosse a casa sua. Altro che imprese epiche, altro che cimenti con una parete da vincere, altro che montagne da domare. Qui la vera protagonista è la natura, in termini religiosi si chiamerebbe creato, una natura amica.  Catherine e Monica (ma è Catherine ad aprire) sono due belle ragazze dai muscoli e nervi scattanti che aderiscono come ragni alla parete, in costumini che attirano lo sguardo interessato e assai poco discreto dei pastori, oltre che la curiosità dei canoisti. Sono due note e audaci atlete del mondo verticale. Catherine, proprio in quell’anno, aveva vinto una delle prime storiche competizioni di Bardonecchia, mentre Monica Dalmasso è una torinese di altrettanta classe. La Destivelle è senz’altro la figura più rappresentativa e completa dell’alpinismo femminile. Poi, a partire dagli anni ’90 il suo orizzonte sono tornate ad essere le montagne e le grandi pareti del mondo: l’Eiger, in solitaria, il pilier Bonatti, le Torri di Trango.


 Il film mostra la tecnica, certo, ma anche una certa spensieratezza nella progressione verticale, un andare in su come fosse, in fondo, soltanto una passeggiata un po’ obliqua. Le mani d’artista dentro le fessure, uno stare in equilibrio su un piede solo per allungarsi in cerca dell’appiglio, un tirarsi su anche con le unghie, un friend infilato nelle fessure, una sosta su un provvidenziale ramo secco radicato in parete che, come tutti i rami, è naturalmente solo una superficie malamente cilindrica che lascia spazio solo a un piede. Sopra, gli zuzzurelloni aspettano, tirando fuori anche cuffie e radiolina.


 Il tratto più duro è verso la fine, dove occorre superare un tetto ma soprattutto la forza di gravità. Quanto a sporgersi pericolosamente, le due bellezze si sporgono. Anzi, per poter passare restano appese per una mano sul vuoto, sotto quel tetto. Mica cosucce per tanti, in libera. Salendo, qualche volo lo fanno, e un paio di parolacce, di quelle del generale Cambronne, scappano fuori spontanee da quelle boccucce. Ma alla fine è la soddisfazione della salita in sè, e dell’uscita in vetta, a vincere.


 Per un film di alpinismo, forse, sarebbe finita qui. E invece no, c’è bisogno di raccontare il ritorno, ed è questa parte, più ancora della descrizione dell’arrampicata, a spiegare un senso della momtagna che è vita «nella» montagna, un «farsi» montagna. La discesa non è con i dissipatori, come nelle scene di apertura.

 Le ragazze tornano su sentieri tra pecore e ruscelli, tra pastori dall’occhio furbo e campi di papaveri. Dall’alto della cascata gettano la corda (bella l’immagine al rallentatore), poi si calano dentro l’acqua che cade come fossero antiche anguane, diventano tutt’uno con la natura. Un tuffo, e dev’essere ben fredda. Poi via ancora, a piedi nudi.


 Gli zuzzurelloni sono ancora lassù, appesi in parete col loro cagnetto, che bevono birra. Alla fine le due coppie si incontrano sulla strada asfaltata in fondovalle, mentre le ragazze tornano in moto e loro a piedi. Un incontro? Non si direbbe, solo un invito per la sera lanciato all’aria, sulla scia della moto, senza eccessiva convinzione. Si va un po’ leggeri, alla giornata, dove porta il vento.

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