Caracciolo: così "inventai" i giornali locali dell'Espresso l'ultima intervista
"L'espresso", certo. "La Repubblica", naturalmente. Ma il progetto al quale Carlo Caracciolo ha dedicato più tempo ed energie è quello dei quotidiani locali raccolti nella Finegil. Un progetto che ha avuto fortuna e successo. E che è cominciato dal "Tirreno", da Livorno. A Caracciolo nel 2005 chiedemmo di ricordare quei giorni e quell'esperienza. Ripubblichiamo integralmente quell'intervista.
Perché si convinse a fare questa scommessa?
"Negli Stati Uniti, dove avevo vissuto per un po', avevo visto che i quotidiani a diffusione locale avevano grandissima importanza ed erano, per chi li faceva, un buon affare. In Italia, invece, testate simili erano tutte in perdita perché di proprietà o del clero o di gruppi di imprenditori locali che non si preoccupavano dei bilanci, ma si accontentavano di controllare uno strumento di pressione. Mi dissi: perché non tentare?".
Un debutto, di quotidiani locali non s'era mai occupato?
"In realtà, anche se indirettamente e per poco tempo, li avevo sfiorati".
Ci dica come andò.
"La Ifi, holding della famiglia Agnelli, aveva acquistato la Fratelli Fabbri Editori. Era il 1973 e io avevo già avviato la Etas Kompass: riviste, libri, pubblicità, "L'Espresso". Mi sembrò una buona idea dare vita alla Editoriale Finanziaria che sarebbe stata posseduta all'80% dalla Ifi e al 20% da me, e che avrebbe controllato le case editrici Bompiani, Sonzogno, Adelphi e Boringhieri e tre giornali: il "Piccolo" di Trieste, l'"Alto Adige" di Bolzano e, al 50%, la "Gazzetta dello Sport"".
Quasi un impero.
"Sì, ma che durò poco".
Perché?
"Accadde che un anno dopo l'"Espresso" uscì con una copertina choc - "Anche Rumor ha preso i soldi" - che mandò su tutte le furie il segretario della Dc Amintore Fanfani. Questi fece sapere a Torino che la misura era colma, e che se io non avessi venduto a persona amica le quote di controllo dell'"Espresso", il governo non avrebbe mai consentito l'aumento di prezzo della Fiat".
Insomma, secondo la Dc, se Agnelli era (oltre che cognato) socio di Caracciolo nell'Editoriale Finanziaria non poteva non esserlo anche nell'"Espresso": questo legame andava spezzato.
"Più o meno era ciò che pensava Fanfani. Ma io non avevo nessuna intenzione di privarmi dell'"Espresso", con il quale peraltro Agnelli non aveva niente a che fare. Decisi allora di vendere all'Ifi le mie azioni dell'Editoriale Finanziaria. In cambio chiesi però di tenere Publietas, la rivista "Scienze" e "Il Piccolo" e l'"Alto Adige". Gianni Agnelli si disse d'accordo".
Eppure non se ne fece niente: perché?
"Me lo comunicò dopo un po' Giovanni Giovannini, stretto collaboratore di Agnelli: Flaminio Piccoli, capo dei dorotei nel nord est, non vuole, mi disse, l'accordo non si può fare. Andai su tutte le furie, trattai malissimo Giovannini. I due giornali furono ceduti alla Rizzoli e dovranno passare molti anni prima che entrino a far parte della nostra catena".
Il suo progetto, però, non si fermò.
"Seppi che Attilio Monti voleva chiudere il "Telegrafo", acquistato da poco, per dare spazio alla "Nazione". La città insorse e giornalisti e tipografi dettero vita a una cooperativa che a lungo gestì il giornale, allora diretto da Carlo Lulli. Noi seguimmo molto da vicino la vicenda attraverso Amedeo Massari e demmo una mano alla cooperativa".
Erano giorni di grande tensione.
"Monti aveva ottenuto a tempo di record dal pretore un'ordinanza di sgombero degli stabilimenti autogestiti dalla cooperativa. Ricordo che la città si radunò sotto la sede del giornale finché il sindaco si sentì in dovere di requisire il "Telegrafo" per "grave necessità pubblica". Monti, sfibrato, cedette: l'11 giugno 1977 vendette a noi. Il 2 gennaio 1978 eravamo in edicola".
Fu una trattativa difficile?
"Monti non vedeva l'ora di vendere, aveva capito che per lui non c'era più niente da fare. Ci chiese solo di cambiare nome al giornale: scegliemmo "Il Tirreno", la testata nata subito dopo la Liberazione, il 28 gennaio del 1945. Noi invece impegnammo Monti a non far uscire per dieci anni "Il Telegrafo". I primi problemi, paradossalmente, li ebbi in casa. Ricordo che Gianfranco Alessandrini, il nostro amministratore delegato, contrarissimo all'operazione, mi disse: "Se va avanti questo progetto, me ne vado"".
All'inizio il giornale fu affidato a Pier Augusto Macchi, per tutti "Pam". Poi arrivò Mario Lenzi: perché scegliesti lui?
"Sfogliando l'annuario dei giornalisti vidi il nome di questo ex vice direttore di "Paese Sera" e all'epoca direttore dell'"Ora", nato a Livorno. Chiesi notizie ad Amerigo Terenzi, il suo editore, che me ne parlò benissimo come professionista, ma mi mise in guardia per gli aspetti caratteriali: è un rompiballe, mi disse. Vorrei assumerlo, spiegai. Bah, provaci pure, rispose Amerigo, ma la vedo difficile: pensa che ha lasciato Roma per Palermo proprio quando ha saputo che stavo trattando con te la cessione di "Paese Sera"".
E invece Lenzi accettò.
"Con grande entusiasmo, era felice di tornare nella sua città. Lavorò molto bene, ma dopo un anno mi chiese di andare via".
Aveva ragione Terenzi...
"Mi confessò che la città lo aveva deluso, specie nella sua nomenklatura politica: non era la Livorno che ricordava. Lo portai a Roma, a lavorare con Massari alla creazione della Finegil. Dopo poco acquistammo "La Nuova Sardegna" e la "Provincia Pavese". L'impresa decollava".
Chi la aiutò a Livorno? Chi la osteggiò?
"La città ci accolse molto favorevolmente. Disponevo poi di un Virgilio d'eccezione, il caro amico Furio Diaz, apprezzatissimo da tutti. Frequentavo qualche altro amico, come Ernesto Laviosa e Marcello Fremura. A loro chiesi di entrare nel consiglio d'amministrazione, ma preferirono di no. Dormivo al "Palazzo", mangiavo ogni tanto da Beppino alla "Barcarola". Una bella esperienza che ricordo con piacere. E dalla quale è nato tutto il resto".
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