Belluno, immigrato brasiliano accusa i vigili: "Infiltrato in cambio di favori"
L'uomo è testimone nel processo contro il comandante della polizia municipale e un'agente

BELLUNO.
La sua attività di “agente provocatore” per far scoprire ai vigili urbani un giro di patenti false nella ristretta comunità brasiliana in cambio della libera circolazione in auto per le strade di Belluno senza il rischio di incappare in controlli. Almeno fino al conseguimento della patente.
Edvanei Fernandes Pereira, il grande accusatore dell’ex comandante della polizia municipale Danilo Salmaso (accusato di omissione in atti d’ufficio) e dell’agente Cristina Fistarol (concorso in falso e omissione in atti d’ufficio), ha parlato per quasi due ore e mezza. Il brasiliano ha lanciato le sue accuse contro lo sceriffo e la vigilessa ma è spesso caduto in contraddizione. La sua denuncia contro i due imputati fu, a suo dire, un atto di ripicca per non aver ricevuto la “tutela” promessagli dai vigili in cambio della sua azione di “infiltrato” nell’organizzazione che dispensava patenti fasulle. Tutte accuse che Salmaso (difeso dall’avvocato Anna Casciarri) e la Fistarol (assistita dall’avvocato Paolo Patelmo) respingono, sostenenedo che Pereira avrebbe inventato quella storia per scagionarsi o comunque alleggerire la sua posizione in seno al gruppo di falsari.
Un’udienza-fiume, caratterizzata da toni spesso aspri tra pubblica accusa e difesa, ognuna arroccata sulle proprie posizioni. Davanti ai giudici del collegio (Antonella Coniglio presidente, a latere Elisabetta Scolozzi e Anna Travia) sono sfilati i poliziotti che condussero le indagini e perquisirono gli uffici del comando dei vigili, dopo la denuncia del brasiliano. Dalle loro deposizioni è emerso che sia la questura che i vigili urbani stavano conducendo un’indagine sul giro di patenti false. E fu proprio Pereira a mettere al corrente la polizia dell’inchiesta parallela dei vigili. La storia dell’agente provocatore fu ritenuta credibile dagli investigatori che provvidero poi a perquisire gli uffici del comando dei vigili. Cercavano la fotocopia di una patente falsa intestata a nome della moglie di Pereira e una busta che il brasiliano sosteneva essere le prove della sua “azione da infiltrato”. Fotocopia e busta furono lasciate a suo dire al comando il giorno in cui era andato lì per ottenere il dissequestro di una delle due auto in cui fu trovato alla guida senza patente. Ma la polizia non trovò nessuna fotocopia. E la busta, sequestrata dalla Digos, aveva una data anteriore di un anno e mezzo al presunto incarico di “agente provocatore”. Non c’era dunque alcuna relazione temporale.
Il brasiliano ha fornito in modo particolareggiato la sua versione durante l’interrogatorio della pubblica accusa. Ma è stato poi messo in notevole difficoltà dalla difesa. Oltre a rilevare che la busta sequestrata dalla Digos non poteva provare alcun legame con Pereira, proprio per una questione di date, sono emersi altri aspetti che hanno francamente messo a dura prova la sua credibilità. Se davvero era stato incaricato a fare l’agente provocatore, che senso avrebbe avuto consegnare la patente falsa in un ufficio del comando dei vigili? Non era più logico organizzare un incontro coi “falsari” per far intervenire i vigili al momento della consegna? Messo sotto presione sulle pendenze penali, Pereira ha dichiarato di non aver alcun procedimento in corso mentre invece la difesa ha prodotto un certificato che attesta che il brasiliano è indagato per truffa, falso e ricettazione. È stato provato che Pereira ha spesso usato il suo vecchio nome, anche quando, con l’ottenimento della cittadinanza italiana, lo aveva cambiato.
Infine, nell’estate del 2008 il brasiliano contattò la polizia sostenendo di essere stato bersaglio di minacce telefoniche dopo la pubblicazione di una sua intervista sul giornale. Ma il suo cellulare era sotto controllo in quel periodo e dalle verifiche delle registrazioni non emerse alcuna telefonata muta o minatoria. Si torna in aula il 31 marzo
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