Economia, marginalità e risorse: la storia industriale di Belluno

«Dalla ricostruzione alla globalizzazione» è il titolo del nuovo libro di Confindustria Dolomiti

Francesco Dal Mas
Il direttore di Assindustria Belluno Andrea Ferrazzi
Il direttore di Assindustria Belluno Andrea Ferrazzi

«Dalla Ricostruzione alla Globalizzazione». Una “rivoluzione silenziosa” la chiama Andrea Ferrazzi. Sono gli 80 anni dell’Associazione Industriali di Belluno. Una ‘rivoluzione’, appunto, maturata progressivamente, inesorabilmente, nelle valli ed in quota con la determinazione di cui solo le genti di montagna sono capaci.

La lezione?

«Sono due – risponde Ferrazzi - L’Associazione Industriali di Belluno è un patrimonio del territorio. Ma la storia non consola: orienta. Le generazioni che ci hanno preceduto non avevano certezze, ma avevano coraggio. Hanno agito, insieme. Ora abbiamo bisogno di quello stesso coraggio che sta alla base di ogni decisione strategica».

Dunque, 80 anni di storia industriale sono un prisma attraverso cui leggere un territorio, le sue fragilità, le sue ambizioni.

In occasione dell’assemblea di Confindustria Belluno Dolomiti, è stato consegnato anche un libro che ricostruisce la storia dell’Associazione e dell’economia bellunese dal 1945 al 2001, scritto dal direttore Ferrazzi, con la prefazione della presidente Lorraine Berton.

Il libro propone non solo una ricostruzione storica, ma anche una lettura del Bellunese attraverso la lente del lavoro, vero motore della trasformazione del territorio dal 1945 al 2001.

Che cosa ha fatto scorgere questa lente?

«Per oltre mezzo secolo, qualunque lavoro – operaio, artigiano, tecnico, imprenditoriale – ha garantito riconoscimento, mobilità sociale e coesione comunitaria, anche nelle aree periferiche. È il periodo in cui il Nord-Est diventa “locomotiva”, basando il proprio modello su fiducia, competenze diffuse e industria di distretto».

Ma alla soglia del terzo Millennio questa equazione si spezza.

«Sì, siamo attorno al 2001. Irrompe l’economia della conoscenza, la centralità del capitale umano, l’emergere dei grandi poli urbani di innovazione e la progressiva perdita di identità del lavoro manuale incrinano il patto sociale del Novecento. Il lavoro non è più un ascensore garantito, né un collante culturale e di senso. È l’inizio di una nuova epoca, incerta e frammentata, che chiude la storia tradizionale e apre le sfide del presente».

Coltivare la memoria, davanti alle sfide, ha un senso? Perché, in sostanza, questo libro?

«Perché ogni comunità industriale ha bisogno di memoria. Belluno più di altre. Qui l’impresa non è solo economia: è identità, riscatto, sopravvivenza. Raccontare ottant’anni di Associazione significa raccontare la trasformazione di un territorio passato dall’emigrazione di massa a un sistema industriale riconosciuto nel mondo. I dati lo confermano: nel 1951 oltre il 45% degli occupati era nell’agricoltura e più di 30.000 persone emigravano ogni anno. In queste condizioni, costruire un futuro non era scontato».

Qual è il filo rosso che unisce questi ottant’anni?

«La fiducia e la capacità di reagire. Dopo la guerra, dopo il Vajont, dopo le crisi petrolifere, dopo la globalizzazione. Ogni shock è diventato un’occasione. Il caso del Vajont lo dimostra: da una tragedia nacque il Conib, una delle poche vere politiche industriali territoriali pianificate in Italia. Longarone passò dalle macerie alle fabbriche, diventando un simbolo nazionale di rinascita. Alla base di tutto, la fiducia nel futuro».

Perché individua non solo il 2001 ma anche il 2008 come cesure decisive?

«Il 2001 segna il ritorno della Storia, che con la fine della guerra fredda qualcuno aveva considerato finita. L’ingresso della Cina nel Wto cambia la geografia produttiva e mette in crisi i modelli basati sul “fare bene a basso costo”. Il 2008 chiude definitivamente la stagione dell’innocenza industriale. La crisi finanziaria rivela i limiti strutturali del modello distrettuale: frammentazione, sottocapitalizzazione, innovazione insufficiente. Da quel momento il Nord Est - e Belluno in primis - avverte di dover cambiare passo, per scongiurare il rischio di restare periferico rispetto ai nuovi circuiti dell’economia mondiale».

Quale ruolo ha avuto l’Associazione in queste transizioni?

«Ha avuto un ruolo di guida. Sempre. Dalla ricostruzione postbellica fino alla globalizzazione, ha rappresentato una costante: visione e pragmatismo. Presidente dopo presidente, l’Associazione è stata una cabina di regia territoriale capace di dialogare con istituzioni, imprese, comunità. Ha saputo indicare la direzione anche nei momenti più complessi, difendendo il valore dell’impresa come motore di sviluppo civile».

Cosa rende il caso Belluno diverso dal resto del Nord Est?

«La montagna. Che altrove sarebbe un limite, qui è diventata una leva. Belluno non aveva infrastrutture, non aveva pianure industriali, non aveva collegamenti. Aveva però coesione, disciplina, fiducia reciproca. Quella fiducia è stata la vera infrastruttura immateriale dello sviluppo. Il territorio è cresciuto senza perdere la sua identità, trasformando la marginalità in una risorsa. La sfida è ancora questa».

Come immagina che gli storici del futuro racconteranno questi anni?

«Dipenderà dalle scelte che facciamo adesso. Siamo dentro una doppia transizione: digitale ed ecologica. La montagna può e deve essere un laboratorio avanzato di queste sfide. Gli storici di domani valuteranno se il Veneto e il Bellunese avranno saputo passare dal modello distrettuale al modello ecosistemico, capace di innovazione, sostenibilità, attrazione di competenze. E valuteranno se eventi come Milano Cortina 2026 saranno stati un’occasione mancata o un punto di svolta».

 

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