Michele De Min: «Quel gol con la Juve e l’applauso di Agnelli»
L’attaccante di Cavarzano racconta la sua carriera, dal Montebelluna a Torino, quando siglò il pareggio a Lucerna il 12 agosto del 1990

SEDICO
Lucerna, 12 agosto 1990. Amichevole estiva, di quelle che adesso quasi non si giocano più. Sacrificate sull’altare dei tanto remunerativi quanto stancanti tour in giro per il mondo. Una volta invece ci si spostava di pochi chilometri dal ritiro svolto sempre sulle porte di casa. E potevano nascere storie uniche. Come quella di Michele De Min, bellunese di Cavarzano, in gol con la maglia della Vecchia Signora.

Quel Lucerna – Juventus era una festa per 25 mila tifosi, raccontano le cronache dell’epoca. La Juventus di Gigi Maifredi dovrebbe passeggiare, in preparazione al nuovo campionato di serie A. Come andrà quel torneo, i tifosi juventini lo ricordano loro malgrado molto bene. Settimo posto e diversi obiettivi mancati.
Ancora oggi, se c’è da fare un paragone calcistico dispregiativo, viene ricordata quell’annata bianconera. E l’amichevole svizzera fu uno dei primi indizi. Eppure, nel caso di De Min, segnò per sempre il confine tra il prima e il dopo della sua carriera sportiva. Ce lo siamo fatti raccontare, assieme a molti altri aneddoti e storie.
Da Cavarzano, a Montebelluna, a Torino, da quel mancato esordio al percorso in serie C sino al ritorno nel Bellunese. Tutto ciò attraverso curiosità, obiettivi futuri e una delle sue grandi passioni: le bocce.
De Min, forse non devo neppure chiederle se si ricorda di quel gol.
«Risposta scontata. Stava iniziando il mio secondo anno nella Primavera bianconera, e di conseguenza anche la seconda preparazione estiva in prima squadra. Quel giorno Maifredi mi fece entrare al posto di Marocchi, l’attuale commentatore Sky, e dopo neppure un minuto siglai il pareggio di testa su cross di Eugenio Corini».
Cosa avvenne, dopo?
«Negli spogliatoi entrò l’avvocato Gianni Agnelli, presente all’incontro. Salutò i ragazzi, poi un dirigente gli presentò il sottoscritto, spiegando che ero stato io ad aver segnato. Mi strinse la mano e, con la sua inconfondibile R moscia, disse: “Bravo ragazzo”. Ancora oggi rammento ogni istante di quell’incontro così emozionante. Stiamo parlando di Gianni Agnelli, voglio dire».
Torniamo alla Juventus. Tante panchine proprio la stagione di Maifredi, eppure quell’esordio non arrivò mai.
«Ed è il mio più grande, e forse unico, rammarico sportivo. Nonostante i molti minuti passati a scaldarmi a bordo campo, niente da fare. Chissà come sarebbero andate le cose se avessi avuto qualche opportunità... Anni dopo, venni a sapere tramite mio papà che ci fu una riunione nella sede della società a Piazza Crimea, per decidere se farmi debuttare da titolare l’indomani nel derby contro il Torino. La paura di bruciarmi prese il sopravvento, e così restai in panchina, anziché giocare contro i rivali cittadini. Mi sono perciò dovuto accontentare delle convocazioni. Come quando, al termine di un tiratissimo Fiorentina – Juventus Primavera, un dirigente mi mise su un taxi, dandomi il biglietto aereo per la tratta Pisa – Roma e Roma – Bari: l’indomani ero riserva al San Nicola, tra l’altro nuovo di zecca visto che era stato preparato per i mondiali del 1990».
Nella stagione precedente eri anche tu sul pullman della squadra, di rientro dalla trasferta di Verona, quando foste raggiunti dalla tragica notizia della morte di Gaetano Scirea.
«Esatto. Lo apprendemmo al casello autostradale di Torino, fu un dolore enorme. Purtroppo ci parlai solo qualche volta, ma era il campione che tutti conoscevamo».
Alla Juventus sei arrivato dopo il settore giovanile a Montebelluna, tra l’altro nuova “casa” calcistica dei tuoi figli.
“Strano il destino, in effetti. Matteo ha firmato alcune settimane fa per la prima squadra, Manuele invece è lì dall’estate. Nessuno dei due però sembrava dovesse vestire il biancoceleste. Matteo veniva dalla preparazione estiva svolta con la Triestina, mentre Manuele dopo l’Union Feltre doveva andare o al Cittadella o alla Reggiana. Purtroppo però nessuna delle due opzioni ha avuto di concretizzarsi, e non per colpa del Covid… Comunque Montebelluna non è mai stata ritenuta un ripiego, anzi. Lo cercavano da tre anni ed ora fa parte dell’organico under 17 Élite. Con il senno di poi è anche stata la soluzione migliore, altrimenti lo stop dei campionati avrebbe creato difficoltà anche a livello scolastico».
So che Matteo, proprio quando è andato a firmare l’accordo, ha visto una foto con un volto conosciuto.
«Mi sono emozionato quando l’ha detto. La grande squadra dello scudetto Allievi, conquistato al mio terzo anno di permanenza nel sodalizio trevigiano. Ci ero arrivato dopo il percorso giovanile nel mio Cavarzano, di dove sono originario. Di quella rosa faceva parte anche Lorenzo Cima. Lo scudetto l’ha vinto anche Matteo qualche anno fa con l’under 17 del Pordenone. Un anno magico, da difensore mise a segno 11 gol».
Torniamo all’estate 1989, ossia quando ti chiamò la Juve.
«Mi volevano in tanti, però la Juventus fu quella ad offrire di più. E così andai assieme a mio fratello Andrea, con il quale ho condiviso il periodo bianconero, ma pure l’esperienza di Prato e a Feltre. Tra l’altro esisteva una sorta di corridoio preferenziale tra Montebelluna e Torino, come dimostrato dai trasferimenti nel tempo di Aldo Serena e Renato Buso, giusto per citarne due».
L’impatto con Torino?
«Incredibile. Da vedere in tv i campioni a salire con loro in pullman verso il ritiro. Parliamo di Roberto Baggio, Totò Schillaci, Paolo Di Canio, Scirea appunto… Ero un primavera, ma mi allenavo spesso assieme ai grandi. Il primo anno la panchina era occupata da Dino Zoff, la stagione dopo venne scelto Maifredi».
Il dopo Juve?
«Tre anni a Prato, con tanto di promozione in C1, poi Montevarchi con altra vittoria della C2. A Fiorenzuola successivamente ho ritrovato l’amico Andrea Da Rold, anch’esso di Cavarzano. Anno bellissimo, con la B sfiorata. Successivamente alcuni mesi al Leffe in provincia di Bergamo, dove però non mi trovai perché giocavamo davanti ad un centinaio di persone massimo. Allora chiamai il procuratore e gli chiesi di trovarmi un’altra squadra. Venne fuori l’opportunità del Catanzaro: tutto il contrario dell’esperienza bergamasca. Tifo incredibile, anche negli allenamenti. Per loro poi ero un idolo. Ti sentivi proprio un calciatore vero e proprio. Tra l’altro, sia nei professionisti e sia quando sono tornato in provincia, non sono mai retrocesso. Anche quella volta a Lentiai…».
Ricordaci tutto.
«Quando allenavo i neroverdi in Seconda Categoria, dopo sei giornate la classifica parlava chiaro: 0 punti. Il mio destino sembrava segnato, tanto che la società mi convocò nella persona del presidente Gianfranco Sacchet e dei suoi collaboratori. Dissi: “Se mi esonerate fate bene, i risultati sono evidenti. Ma se decidete di tenermi, da qui in avanti si fa come dico io”. Risultato? Subito un pareggio, poi... salvezza ai playout, con gli opportuni aggiustamenti dell’organico».

L’avventura nel calcio professionistico finì a Catanzaro.
«Saltò due volte un trasferimento in serie B che, volendo essere chiari, è dove esistono i soldi veri. Ci fu anche la parentesi Sandonà. Avevo firmato un precontratto, poi decisi di non andarci più. Cosa che Bruno Tedino, allenatore professionista che all’epoca guidava proprio il Sandonà, mi ha rinfacciato qualche anno fa a Pordenone, un giorno in cui ero andato a parlare per Matteo. Ricordo poi bene il momento in cui andai nella sede del calciomercato al Forum di Assago per firmare la rescissione con i giallorossi. Ci fu anche un episodio simpatico».
Racconti.
«Uscito dal box del Catanzaro, venni preso sottobraccio da due addetti alla sicurezza ed accompagnato dentro un’altra stanza, senza però fare a tempo a vedere il nome del club. Lì c’era un presidente con un contratto biennale già intestato a mio nome, dove potevo scrivere la cifra che volevo, senza alcun problema. Ho scoperto dopo trattarsi del Teramo. Non riuscì però a convincermi…».
La aspettavano a Feltre.
«Di sicuro venne via a Milano l’allenatore Toni Tormen, ed altri che non ricordo. Anni belli in granata, ma mai la gioia di una promozione. Ancora oggi non dimentico lo spareggio perso a Montebelluna contro il Dolo, gol di Gementi (attuale ds del Trento, ndr) su punizione. Dominammo, io tirai tre, quattro volte a botta sicura. Ho vissuto comunque ottimi anni, nonostante gli infortuni. Anche se quelle critiche…».

Della serie: difficile essere profeti in patria?
«A Catanzaro ero un idolo per tutti, a Feltre a due passi da casa in molti avevano da ridire su come giocavo e quant’altro. Pazzesco vero? Colpa dell’invidia, secondo me: a tanti dava fastidio che io fossi andato in quelle categorie dove loro pensavano di riuscire ad arrivare».
Con tuo fratello Andrea hai condiviso momenti speciali.
«Esatto. Lui ha un anno più di me. Come me, non ha mai avuto modo di esordire alla Juventus. Ci siamo poi ritrovati a Prato e Feltre».
Hai allenato Ztll, Castion, Lentiai ed altre società. Basta con quel percorso?
«Direi di sì. Farei fatica a conciliarlo con gli impegni di lavoro. Prenderei in considerazione un ruolo dirigenziale invece. Adesso sto anche conoscendo il mondo del calcio a 5 attraverso la Giorik Sedico».
Solo calcio a casa tua. Tua moglie è tra l’altro Monica D’Alfonso, una vita nel mondo del pallone bellunese come massaggiatrice.
«Ci conosciamo dalle superiori, ci siamo ritrovati quando sono tornato a Feltre. Però non parliamo solo di pallone a casa, se no sai che monotonia. Anche se condividiamo tutti e quattro la passione per la Juventus».
Chiudiamo con un “forse non tutti sanno che”…
«Che gioco a bocce. Un’esperienza nata parlando assieme ad amici durante una partita di pallavolo. Già da piccolo a Cavarzano mi dilettavo in questo sport e la passione è rimasta. Trent’anni dopo ho ripreso e sono tesserato con il Pedavena, squadra del mio amico Omar. Una società gloriosa, presieduta da Ceccon. Essendo calcisticamente un feltrino, è come continuare a giocare a casa mia…». —
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