Francesco Vidotto, da manager di città a scrittore eremita: «Racconto la vita»
Da Conegliano, è tornato a Pieve di Cadore, tra le sue amate Dolomiti: «La montagna conserva nelle sue rughe di pietra le espressioni della gente». Sui social è seguito da quasi 400 mila persone


Undici libri, scritti in vent’anni “con lucidità e metodo”, sfuggendo dalla città e dalla professione di manager per raccontare storie di vite semplici, strappate all’oblio del tempo. Eppure così piene ancora oggi di significato proprio perché interpretate da persone comuni, radicate, vere, strettamente intrecciate alla loro terra.
Questo è oggi Francesco Vidotto, classe 1976: nato a Treviso, ha saputo creare, con i suoi personaggi, un personaggio, lui stesso, riconosciuto e amato in tutta Italia, e che vive ai piedi delle montagne dolomitiche, a Tai di Cadore.
Una notorietà vissuta controcorrente rispetto alla decisione di una vita ritirata in montagna, perché oggi scrivere libri vuol dire anche presentarli al pubblico e talvolta anche in tv.
«Ma io», precisa, «in tv vado poco e solo se chiamato a parlare dei miei libri, mentre vedo colleghi tuttologhi. Non fa per me. Preferisco raccogliere storie e raccontarle per tramandare un modo di vivere tanto lontano dal nostro da mantenere intatto tutto il suo fascino. Purtroppo i vecchi di quegli anni sono quasi tutti morti. Oggi restano la memoria di qualche adulto, lettere, cartoline fra cui scartabellare».
Ed è da questa ricerca che nasce anche il suo ultimo libro, “Onesto”, (Bompiani, 252 pagine, euro 19), la storia di due gemelli, il protagonista e Santo, e di Celeste, che scaturisce, pagina dopo pagina, dalle lettere raccolte da Guido Contin detto Cognac, che abita in un casello dismesso della vecchia ferrovia adagiata tra i boschi del Cadore insieme a Moglie, la sua gatta.
È anziano e non possiede più nulla, se non una dentiera, che usa con parsimonia, e una cartelletta piena di lettere indirizzate alle cime delle montagne e respinte al mittente. Sono pagine scritte a mano da un uomo che si firma con il nome di Onesto e racconta la sua vita con il fratello gemello Santo, l’incontro con Celeste, la guerra, la morte e l’amore.
Sembrano storie semplici, di persone che accettano il destino senza porsi troppe domande, aggrappate alla vita come i larici ai pendii più scoscesi. E invece rivelano vicende straordinarie: un rapimento, un figlio ritrovato, una terribile violenza, una bomba che cade nella notte, una fotografia nascosta tra le rocce, un segreto pieno di vergogna e, soprattutto, un amore inconfessabile che scorre attraverso la vita come un torrente impetuoso. Insomma, la vita di Onesto serve a Vidotto per richiamare valori universali, forse caduti un po’ in disuso, o addirittura dispersi nella frenesia della vita quotidiana, e come appannati, ma pure ancora oggi così validi che lo stesso autore, per rispolverarli, ha deciso di lasciare la città e rifugiarsi sui monti.
Come sta andando il libro uscito a gennaio?
«Molto bene, abbiamo superato le 78 mila copie. Bompiani ha deciso di puntare su “Onesto” e mi segue con molta cura».
E le presentazioni?
«Ormai saranno una sessantina, segno che ho un pubblico di amici-lettori davvero appassionati e soprattutto con cui facciamo serate sempre molto divertenti».
Da quanti anni scrive?
«Esattamente da venti, con undici libri pubblicati per varie case editrici».
Quanto tempo ha impiegato a scrivere Onesto?
«Quattro anni di scrittura, andando alla ricerca di storie vere. Non tutti i fatti che racconto sono accaduti al protagonista, ma è tutto vero».
Scrivere è un lavoro. Quando lo fa?
«Scrivo ogni mattina, perché serve molta energia, vivendo a fondo le emozioni che racconto, secondo quello che diceva Ernest Hemingway: “Mostra, non descrivere».
Ha un suo schema di lavoro?
«Sì, una sorta di routine ripetitiva: mi sveglio verso le 6, scrivo per tre ore, dalle 7 alle 10, poi leggo fino a pranzo. Sono solito smettere di scrivere a metà di un capitolo, così che il giorno dopo so già da dove ripartire. Nel pomeriggio cammino, faccio sport, arrampico e poi mi dedico alla famiglia. Scrivere è un lavoro, la narrativa per me richiede lucidità e metodo, Un lavoro molto bello fatto di 6/8 mesi di introspezione e poi di un viaggio fuori di te per il resto dell’anno».
Soddisfatto?
«Sì, mi piace raccontare storie e sono riuscito a fare quello che sono. I soldi, il guadagno passano in secondo piano quando fai una cosa che ti piace e la fai con amore. Questo fa la differenza. L’amore fa la differenza sempre».
Come va il rapporto con i suoi lettori?
«È una delle soddisfazioni più grandi e credo di essere l’unico scrittore ad avere un fan club di ottuagenari. Un giorno è capitato a trovarmi un gruppo di anziani da Verona che avevano organizzato un pulmino».
Ma c’è anche un pubblico sul web, dove lei dispensa qualche pillola di filosofia.
«Sono parecchi, 190 mila follower su Facebook, 200. mila su Instagram. Ma sui social non parlo quasi mai dei libri, affronto argomenti generali, sulla vita, riflessioni. Sul mio sito invece vendo anche i miei libri con la dedica, li personalizzo uno ad uno e li spedisco, anche 500/600 al mese; è quasi un altro lavoro a cui tengo molto».
Lei è uno scrittore gentile...
«Lo sono per carattere e per imposizione perché la gentilezza è gratis e non ho alcuna stima per chi è scortese, per chi si mostra burbero, scontroso, si veste male, è sgraziato. Questa è una pessima immagine per la montagna. Mio nonno aveva solo due vestiti, ma era sempre inappuntabile».
A proposito della montagna, lei è un purista? C’è, come dice qualcuno, troppo turismo becero?
«Io dico sì agli impianti di risalita se consentono ai giovani di montagna di non scappare a Padova o a Milano, ma gli danno un posto da maestro di sci o da guida alpina. E dico sì ai B&B, con lo stesso obiettivo: non spopolare, come invece sta succedendo, i nostri paesi. Non sono un purista della montagna, come sento definirsi in tanti. Poi gli chiedi: “Ma tu dove vivi?”. E ti rispondono: “Padova’o’Milano”.
Quali sono i suoi autori di rifermento?
«Amo tantissimo lo stile di Luis Sepulveda, mi piace molto Pupi Avati. Ma più che autori, direi libri di riferimento. “Novecento” di Alessandro Baricco, “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi, “Open” di Andre Agassi, “Due di due” di Andrea De Carlo, “La fragilità che è in noi” di Eugenio Borgna, psichiatra, sul potere della parola e della comunicazione».
Insomma il libro è il miglior amico dell’uomo.
«È l’unico veicolo che impone una crescita culturale, grazie alla lentezza nell’assorbirlo in un mondo che corre troppo veloce per riflettere su se stesso e sulla vita».
Cosa rappresenta per lei il Cadore?
«Il Cadore è un personaggio dei miei romanzi. La montagna, al contrario delle città, trattiene ancora nelle valli, nelle soffitte, le vecchie storie. La montagna fa questo: conserva nelle sue rughe di pietra le espressioni della gente. Ma le mie non sono storie di montagna, come io non sono uno “scrittore di montagna”: scrivo storie di cuore ambientate in montagna, se fossi di Padova le ambienterei a Padova».
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