“Grillo” De Zolt: «Senza la montagna non potrei vivere»

SANTO STEFANO DI CADORE. Una vita per lo sport. Ma anche per la montagna, senza la quale e al di fuori di cui non potrebbe vivere. Il legame del “Grillo” Maurilio De Zolt con il “suo” Comelico non si è mai spezzato. Plurimedagliato olimpico e atleta di assoluto valore mondiale, l’atleta rivendica con forza le proprie origini, insieme a bellezza e tranquillità di luoghi che gli hanno dato i natali e in cui continua a vivere. E proprio nella sua terra, il 30 luglio a Santo Stefano, a De Zolt verrà consegnato il riconoscimento speciale della Provincia di Belluno: il “Pelmo d’Oro 2016”. Un riconoscimento istituto nel 1998 per onorare persone, enti pubblici e privati, associazioni e sodalizi che si sono impegnati, con particolari meriti, nell’ambito di alpinismo e solidarietà alpina, di tutela e valorizzazione dell’ambiente e delle risorse umane, di conoscenza e promozione della cultura, della storia e delle tradizioni delle Dolomiti bellunesi.
La carriera sportiva l’ha portata in tanti posti del mondo, ma le radici sono sempre rimaste ben salde...
«Esattamente. Dal 1991 vivo a Campolongo, frazione di Santo Stefano di Cadore. Prima ero a Presenaio, a San Pietro. A Campolongo ho un fienile e mi occupo di animali, in particolare di galline - per cui ho costruito un’incubatrice - e conigli. Ho un cane da guardia, un pastore italiano nero, di cui in Italia c’è solo un allevamento, a Pescara. Un bel cane che ogni tanto si mangia qualche gallina, sostituendosi alla volpe (dice ridendo, ndr). Porto avanti anche l’attività agricola: ho infatti messo in piedi una serra. Attorno a casa c’è un terreno di circa 5 mila metri quadrati».
«Ho deciso di rimanere in Comelico», prosegue, «nonostante avessi avuto delle offerte per trasferirmi in altri luoghi: mi era stato chiesto di andare in Svizzera, per esempio, oppure di rimanere nella Fisi. Ma io di stare in mezzo al caos e allo stress non sono capace: l’ho sopportato per tanto tempo e, dopo vent’anni, ho detto basta. Non ce la farei. Ho bisogno della natura e della montagna. Diverse persone mi avevano detto che ero un pazzo a trasferirmi nella piccola realtà di Campolongo: una frazione con poche case e in cui arriva poco il sole. Ma la mia vita è qui. Sono sposato con Maria Luisa, ho tre figli, Luca, Tiziana e Michela (uno di loro, Luca, è fondatore del birrificio artigianale “del grillo”, a San Pietro ndr) e quattro nipoti. E dico una cosa: «l di fuori di un contesto di montagna non potrei vivere. Ne ho bisogno. Qualcuno potrà anche dire che faccio l’eremita, ma io amo questo stile di vita lento, a contatto con la natura. Non saprei vivere al di fuori di qui».
Come nasce questo rapporto affettivo con la montagna?
«Fin da bambino mi alzavo alle 5 per andare a fare fieno e la sera andavo a dormire alle 9. A otto anni ricordo che mi sono tagliato un dito affilando la falce. Andavo con il “gerlo” a raccogliere le pigne, oltre che a togliere le “zoche” rimaste dopo il taglio degli alberi. Mi viene poi in mente spesso che quando mio padre riusciva a prendere un gallo forcello o un gallo cedrone era una gran festa. Sono tutte esperienze che, mi rendo conto, mi hanno aiutato per il dopo, ossia per quando ho iniziato la carriera sportiva. Mi hanno permesso di capire cos’è il sacrificio».
Ma ha vissuto la montagna anche partecipando a delle competizioni e realizzando delle imprese. Ha mai pensato nel corso della sua vita di intraprendere la carriera di alpinista?
«Dai 16 ai 20 anni soprattutto, e poi anche dopo, frequentare la montagna è sempre stata la mia passione. Il 9 luglio del 1988, con altri due componenti del Gs Vigili del fuoco, Beniamino Sitta e Ivo Andrich, fui protagonista della traversata dal lago di Braies a Belluno. Una staffetta completata in 13 ore e 16 minuti, tempo ufficializzato dal giudice cronometrista Renato Burigo. Ho fatto poi l’Ortigara, al tempo una delle gare più dure. E la Transcivetta, per fare alcuni esempi. D’inverno, tutt’ora, pratico sci alpinismo. E trovo le nostre montagne bellissime. Ovviamente, sono un po’ “nazionalista” e ho una preferenza particolare per il Peralba, la montagna del Comelico. Mi piaceva anche scalare: non sono mai arrivato “in cima”, ma se qualcuno mi avesse insegnato, non mi sarebbe dispiaciuto. Forse, se fossi stato indirizzato, avrei potuto essere un alpinista. Quello che ho fatto è stato tutto da autodidatta e la passione non sarebbe mancata. Non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno fare il ciclista. Ho sempre amato tutti gli sport di montagna».
Il “destino” ha voluto poi per lei uno “sbocco” specifico:come è iniziata la carriera nello sci di fondo?
«Faccio un passo indietro: l’alluvione nel 1966 costrinse la mia famiglia a trasferirsi a Cima Gogna. Lì ho studiato come coltivatore meccanico. E facevo il segantino. Poi sono sceso a Belluno per andare a lavorare alla Holzer: ricordo che con quello che prendevo non riuscivo nemmeno a pagare l’affitto per un piccolo appartamento. Ho comunque imparato un mestiere. Sono rimasto lì fino agli anni Settanta, quando poi sono entrato nel corpo dei vigili del fuoco, all’interno del quale ebbi la possibilità di iniziare la carriera sportiva. Ma ricordo che già a otto anni disputai la prima gara di fondo».
Molto è cambiato negli ultimi decenni nel mondo dello sport. Quali consigli darebbe a un giovane che voglia intraprendere una carriera?
«Tutto è possibile. Io mi sono formato grazie e con i vigili del fuoco. Allo stato attuale qualche difficoltà è data dal fatto che per diversi potenziali atleti si sono chiuse le porte dei corpi militari, che hanno ridimensionato i propri gruppi sportivi. Senza il loro sostegno, soprattutto economico, è difficilissimo emergere. O ci riescono in pochi. A un giovane direi comunque che deve avere la volontà di fare dei sacrifici. Io, per esempio, non avevo il fisico ideale, tipico dello sportivo, ma con l’impegno sono arrivato in alto. Se si vuole crescere non si può praticare sport solo per hobby».
Parlando ancora di montagna, anche in quel contesto molto è cambiato, a cominciare dal rapporto di chi vi abita con la natura.
«Tante cose sono diverse. Raccontavo prima che mi svegliavo alle 5 di mattina per andare a fare fieno. Ora, per i nostri giovani di montagna non è più così. Una volta si viveva di attività come la fienagione e il taglio della legna. Ora c’è l’abbondanza, anche troppa (almeno finché dura) e il sistema si è profondamente modificato. Un problema molto forte è quello dell’abbandono e dell’incuria del territorio. Penso però che non sia colpa dei boscaioli o di altre persone. Ora “star dentro” con i prezzi è molto difficile: pensiamo solo alla concorrenza con i paesi esteri. E poi c’è da dire che nostri vicini delle Regioni e Province a statuto speciale stanno meglio di noi bellunesi, che invece siamo ai margini. Questa non è una scusa, ma una realtà: basta vedere il sostegno economico su cui i nostri confinanti possono contare. Questo non è giusto: personalmente penso che in Italia tutti dovrebbero essere uguali e avere lo stesso trattamento».
Si aspettava di ricevere il “Pelmo d’Oro”?
«Quando me lo hanno comunicato, un mese e mezzo fa, sono rimasto molto contento. E un po’ stupito: pensavo lo assegnassero solo agli alpinisti “puri”, e io non lo sono. In ogni caso, per me è un onore ricevere questo premio ed è bellissimo il fatto che la consegna avvenga proprio nel mio Comelico».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi