Bruciata ma non catturata, la bandiera del 46°

Nel corso della difficile ritirata di Caporetto, il racconto di Camillo Vazzoler prima della resa agli austroungarici
BELLUNO. Nel contesto della difficile ritirata dell’intera Brigata “Reggio” lungo la Val Maè nei frenetici giorni del dopo Caporetto, particolarmente sofferta fu la marcia del 46° Reggimento Fanteria. Questo reparto, comandato dal Colonnello Ignazio Libertini, già il primo novembre era in fase di ripiegamento, avendo come retroguardia il I Battaglione (a cui apparteneva Camillo Vazzoler, autore di un diario su quei tragici giorni) ed il III Battaglione, che si ritirarono per Selva di Cadore e la Val Zoldana.


Dopo una sosta alla Staulanza, dove già era caduta la prima neve, si attestarono sulle linee di difesa di Col Baion, con sosta a Dont. L’8 novembre presero posizione a Soffranco.


Il 9 novembre il I Battaglione, giunto alla confluenza dei due fiumi, si accorse che gli austriaci occupavano la stretta. Il generale Nassi, che si trovava a Longarone, assunse il comando di tutte le truppe ammassate a Longarone (circa dieci-quindicimila uomini dei Battaglioni Alpini Assietta, Montenero, Fenestrelle e XXXVIII Bersaglieri) e decise la sera, con l’aiuto di un montanaro del luogo, la ritirata lungo un sentiero che, passando per Pian di Caiada e sul fianco del monte Serva, portava a Bolzano Bellunese, coll’intento di raggiungere Sedico e Feltre.


In testa, sotto una nevicata, marciavano gli alpini, poi gli artiglieri da montagna, i bersaglieri e le altre truppe. Ultimi, di copertura, venivano i due Battaglioni del 46°, con la bandiera del reggimento. Finalmente alle 10 dell’11 novembre fu raggiunta Bolzano Bellunese e dopo una sosta di pochi minuti riprese subito la marcia verso Sedico con in testa la seconda compagnia del III Battaglione.


Il colonnello Libertini però nella tarda mattinata cadde prigioniero con alcuni ufficiali e soldati che lo scortavano. Il grosso della colonna dopo altre due ore di marcia raggiunse Vignole, presso Mas, e qui, su una strada di campagna che sboccava nella provinciale, fu assalito all’improvviso con fucilate e scariche di mitragliatrice da reparti austriaci e costretto, dopo breve combattimento, ad arrendersi.


Pare che il nemico si fosse servito di alcuni informatori infiltratisi nelle nostre linee vestiti da donne. L’epilogo è così raccontato da Camillo Vazzoler (“La mia evasione dal campo di prigionia di Sopronnjèk”, 1968): «Gli austriaci tentarono di farci arrendere con un attacco furioso, che però riuscimmo a respingere, contrattaccando alla baionetta. Ma ormai eravamo finiti. Qualche soldato qua e là sventolava nelle ombre della sera il fazzoletto bianco in segno di resa. Quando capii che la nostra cattura era inevitabile, insieme con altri due colleghi presi la bandiera e, accesa una fiammata con foglie di granoturco, ne bruciai il drappo, ritagliandone un pezzetto della striscia bianca. Bruciai quindi anche l’asta, nascondendone la lancia sotto il cassettone nella casa dei contadini. Null’altro ormai si poteva fare, perché la bandiera non cadesse in mano al nemico. La lancia infatti fu salvata e conservata dal contadino per tutto il periodo dell’occupazione austriaca. Qualche anno dopo la fine della guerra venni a sapere dai giornali che la nuova bandiera del 46° fanteria era stata benedetta solennemente a Cagliari alla presenza del Capo del Governo, insieme con la vecchia lancia. Il ritaglio di stoffa bianco, che in prigionia e durante l’evasione avevo portato sempre con me, dopo il ritorno in patria lo consegnai al vecchio Comandante del Reggimento, Colonnello Cangemi, che trovai a Cagliari».


Walter Musizza




Argomenti:caporetto

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi