Arbasino: il pensiero, la parola, la cultura Un grande intellettuale del Novecento

È morto a 90 anni, era malato da tempo. Il suo segno attraversa tutte le espressioni, dalla scrittura alla critica, al Gruppo 63
27/03/2011 Milano Trasmissione Che Tempo che Fa nella foto Alberto Arbasino
27/03/2011 Milano Trasmissione Che Tempo che Fa nella foto Alberto Arbasino

Alberto Mattioli

La casalinga di Voghera e la gita a Chiasso. L’Argolide sitibonda (dove però un inaspettato nubifragio si abbatte sulle divine mondane in trasferta a Epidauro per una Callas terminale) e Un Paese senza. Ah, e naturalmente i tre stadi della carriera dell’intellettuale italiano: bella promessa, solito stronzo, venerato maestro.

Che dispiacere, signora mia. Se ne va anche il più venerato dei maestri, Alberto Arbasino, 90 anni, «nato a Voghera nel 1930 e rinato a Roma nel 1957», uno che aveva letto tutto, visto tutto, fatto tutto e scritto tutto, tranne che delle sciocchezze. Romanziere, saggista, giornalista, critico, poeta, rapper, viaggiatore, conduttore televisivo (Match nel ’77), addirittura regista d’opera (una Carmen strutturalista a Bologna nel ’67, con la complicità di Roland Barthes ed Escamillo vestito da Superman, ovviamente fischiatissima). Perfino uomo politico, deputato nella IX legislatura, ’83-’87, indipendente nelle liste del Pri su proposta degli amici Spadolini e Visentini, e naturalmente poi deluso dall’esperienza, a parte qualche chiacchierata con Nilde Iotti davanti alla fotocopiatrice.

Da subito critico con i bovarismi della provincia italiana, che è poi l’Italia intera: «Il male di vivere lo incontravo a Voghera, ma non lo salutavo». Famiglia borghese, laurea in Giurisprudenza a Milano, specializzazione in Diritto internazionale, anche corsi a Harvard per ascoltare un certo Henry Kissinger, all’inizio Arbasino è incerto tra la carriera diplomatica e quella accademica. Intanto, a Londra, Parigi e New York, ne approfitta per intervistare per “Il mondo” e altre riviste giudiziose i mostri sacri del Novecento, tutti ancora lì a disposizione del coltissimo giovin signore in vacanza studio. Ma poi vince la letteratura.

I racconti d’esordio diventeranno “Le piccole vacanze”, pubblicato nel ’57. Nel ’59 esce il primo romanzo apertamente gay della patria letteratura, “L’Anonimo lombardo”, nel ’63 la prima versione dell’opus magnum, “Fratelli d’Italia”, scritto e riscritto per trent’anni fino alle 1.400 pagine dell’Adelphi definitivo, sterminato reportage sull’Italia del boom e di sempre, chiacchiera mondana e cazzeggio intellettuale, metà Recherche e metà Dictionnaire des idées reçues, una grotta di Aladino che continua a svelare delizie e perfidie, citazioni e recensioni, ritratti e caricature, in una girandola frenetica e illuminante di mostre e concerti e vacanze e ristoranti e marchettari.

Diventa uno dei membri del Gruppo 63, in rivolta contro «le Liale», i padri della Patria letteraria più venerata. E fino alla metà dei Settanta continua a sfornare metaromanzi irrinunciabili, “Super-Eliogabalo”, forse il suo prediletto, “Il principe costante”, all’incrocio fra Calderón de la Barca e Broadway, “La bella di Lodi”, che diventa anche un film di Missiroli con una sfolgorante Stefania Sandrelli, l’irresistibile “Specchio delle mie brame”. Dopo, soprattutto saggistica, esibendo una vena moralistica ma non bigotta e molto pragmatica, da illuminista lombardo, nel reportage sull’affare Moro (“In questo Stato”) o sul conformismo dell’anticonformismo anni Settanta (“Un Paese senza”). E poi i grandi reportage di viaggio, le recensioni tra musica, letteratura, teatro, cinema, architettura, arte (ma attenzione, «il sonno della ragione genera mostre»), le collaborazioni ai quotidiani (prima Il Giorno, poi Corriere e infine Repubblica, spedendo però alla Stampa piccole acuminatissime lettere, saggi in pillole), i due volumetti di rap, l’omaggio all’amato Gadda (“L’ingegnere in blu”), il micidiale pamphlet La vita bassa come simbolo di un’Italia dove di basso non c’è solo il cavallo dei pantaloni.

La sua scrittura infinita sfocia in elenchi interminabili che si leggono non per sapere dove vanno a finire, ma nella speranza che non finiscano mai. È un volteggio fintamente lieve sul trapezio di una cultura e di un’intelligenza egualmente sconfinate, si parli di Fichte o dei Legnanesi, ma sempre corrette dall’ironia e talvolta dal cinismo.

Le polemiche, anche, come quando lui, che non aveva mai fatto mistero della sua omosessualità, definì i pride «l’orgoglio del sedere». Ma rifiutando ostinatamente di diventare un personaggetto prêt-à-penser dell’imbarazzante circo mediatico nazionale. Chissà che avrebbe detto della pestilenza, in quest’Italia sempre più pestilenziale.

Tutti l’hanno letto, ritagliato, studiato, copiato. Invano: perché nel suo mischiare alto e basso, massimi sistemi e minimi pettegolezzi, manifesti letterari e vestiti delle principesse, impegno civile e jet set, l’imitatissimo Arbasino resta inimitabile. Grazie, venerato maestro. Noi soliti stronzi oggi siamo molto tristi. —

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