A Kirov una fossa comune con 20 mila soldati dell’Unirr

BELLUNO. La strada del Davai, la chiamò Nuto Revelli. “Davai”, ovvero “Avanti”, era la parola che le sentinelle russe ripetevano in continuazione per spronare i poveri prigionieri esausti e impossibilitati a continuare il cammino verso un campo di prigionia situato chissà dove. Chi cadeva sfinito veniva abbattuto a colpi di fucile dalle guardie, per lo più mongole.
Il campo di prigionia di Kirov, a circa 800 km a nord di Mosca, è stato una delle mete di questi drammatici viaggi di tanti nostri soldati dell’Armir finiti catturati, un enorme e crudele collettore di tragici destini, in cui si ritrovarono uomini di diversa nazionalità (ungheresi, tedeschi, rumeni, italiani), catturati in zone spesso lontane e appartenenti ai più svariati reparti.
Paolo Plini, autore nel luglio 2013 di una accurata lista di circa 200 ospedali e gulag russi, segnalava che nei dintorni di questa città, che oggi conta quasi 500 mila abitanti, c’erano almeno due campi di prigionia, il 101 e soprattutto il 307. E di Kirov stanno parlando in pratica tutti i giornali italiani dopo la notizia diffusa dalla sezione “Ricerche storiche” del Gruppo speleologico di San Martino del Carso, ovvero l’individuazione lo scorso giugno, a circa 15 km dalla città russa, di una sepoltura di massa finora sconosciuta agli esperti, in un’area interessata da campi coltivati, ma pure da piani edilizi.
Secondo due ricercatori russi, Alexey Ivakin e Andrey Ogoljuk, sarebbero 15-20 mila le persone inumate su una superficie pari a circa cinque campi di calcio: se così fosse ci troveremmo davanti a una scoperta sensazionale, ben più importante di tutte quelle avvenute in un recente passato.
La notizia, come ha già sottolineato Italo Cati, vicepresidente dell’Unirr (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia), riaccende la speranza per tante famiglie italiane che hanno avuto un parente perduto nel gorgo della campagna di Russia, di ritrovare (e magari pure riavere) i resti del loro caro, o per lo meno ottenere qualche prova della sua morte, perché già conoscere il luogo del decesso è una vittoria sull’oblio.
Dei 230 mila soldati italiani che partirono con l’Armir, quasi 90 mila persero la vita, ma di questi ben 56.689 risultano semplicemente “dispersi”. Secondo Maria Teresa Giusti, docente di storia contemporanea all’università di Chieti-Pescara, i registri che la Russia ci ha permesso di consultare dopo la caduta del comunismo contengono i nomi di 64.500 italiani rinchiusi nei campi di prigionia, ma va detto subito che l’elenco non tiene conto dei tanti che morirono nelle marce di trasferimento verso i campi di prigionia. Il campo di Tambov, nel sud della Russia, era finora quello più conosciuto, nel quale si sapeva che fossero morti molti nostri connazionali, ma certo Kirov, seppur lontana dal Don, dove operava l’Armir, potrebbe gettare luce nuova e ormai insperata sulle ricerche di familiari e storici.
Il vicepresidente dello stesso Gruppo speleologico di San Martino, Gianfranco Simonti, afferma che sono state giù trovate alcune medagliette di italiani e Guido Aviani Fulvio, direttore del Museo della Campagna di Russia presso il Sacrario di Cargnacco, dà per molto probabile che in quell’enorme fossa vi siano i resti di parecchi friulani e forse anche triestini, goriziani, istriani e dalmati. Dobbiamo attenderci, quindi, che lì siano finiti anche molti bellunesi, considerato il gran numero di uomini della nostra provincia chiamati a quella sciagurata campagna.
Se consultiamo gli elenchi dei Caduti e dispersi sul fronte russo sul sito dell’Unirr (www.unirr.it) e cerchiamo i nominativi di tutti coloro che erano nati in provincia di Belluno, troviamo ben 1.232 persone. Il primo è Francesco Agnolet di Voltago, l’ultimo Bruno Zuglian di Cesiomaggiore. Di Agnolet, caporale del 9° Regg. Alpini, sappiamo che fu ritrovato ed esumato dal cimitero militare campale di Selenij Jar, ma per Zuglian, caporale del 3° Regg. Artiglieria Alpina, come del resto per oltre il 90% di tutti i presenti nell’elenco, come luogo di morte figura solo un disarmante “località non nota”. È’ probabile quindi che a Kirov ci siano anche bellunesi, ma la sicurezza ci sarà solo quando affiorerà una piastrina, il cui numero faccia recuperare l’identità del caduto.
Per ora si stanno facendo dei saggi di scavo in vari punti non lontano dai binari della Transiberiana, ma le riesumazioni dovrebbero iniziare nel maggio 2017 e durare parecchi mesi. Qualcuno ha avanzato anche una stima dei militari italiani lì sepolti: mille o forse duemila. Si sa che finora è stata recuperata la piastrina di Giulio Lazzarotti, alpino nato nel Parmigiano nel 1922 e deceduto il 20 gennaio del 1943, e ciò è già la dimostrazione che a Kirov c’erano italiani. La ricerca, dunque, è appena all’inizio e, sebbene per motivi burocratici e politici non sembri procedere spedita, potrà avere sviluppi sorprendenti.
Sono passati più di 70 anni, varie generazioni si sono ormai succedute, ma l’aspirazione a volere che i propri cari tornino ad essere uomini e non più fantasmi è insopprimibile.
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