Vajont, parla il figlio di Chiarelli: «Chi può, renda pubblici tutti gli atti»

Pierluigi Chiarelli torna sulla testimonianza del padre secondo cui la frana fu provocata ad arte, spiega la lunga attesa e replica piccato al procuratore Pavone
lapidi al cimitero di erto
lapidi al cimitero di erto

BELLUNO. «Perché il giudice estensore ha considerato irrilevante la testimonianza di mio padre?». Chiamato in causa dalle parole del procuratore capo Francesco Saverio Pavone, Pierluigi Chiarelli replica punto per punto ai dubbi sollevati dalla procura in merito alle dichiarazioni fatte dalla sorella Francesca e pone, a sua volta, una serie di domande “scomode”.

La prima puntualizzazione riguarda proprio la lettera della sorella, che Pierluigi definisce: «Un’iniziativa unilaterale della sola Francesca Chiarelli, la quale riteneva che a distanza di cinquant’anni i tempi fossero maturi per poter valutare con distacco storico alcuni aspetti forse non sufficientemente approfonditi», ma questo, sia chiaro, non è un modo per dissociarsi, anzi.

Avvocato con qualche anno in più di Francesca, Pierluigi Chiarelli ricorda i racconti del padre notaio riguardo al Vajont e precisa subito: «Mio padre ha testimoniato sia a Belluno che in pubblico dibattimento all’Aquila». Ma di questo secondo evento si sa pochissimo: due righe sommarie negli atti messi a disposizione dall’Archivio di Stato martedì mattina e nient’altro, perché la conservatrice ha affermato che per 70 anni gli atti processuali non possono essere resi pubblici, nemmeno a un avvocato, nemmeno a un discendente di un testimone. «Se è vero sapremo la verità solo quando saremo tutti morti».

«Il procuratore Pavone, però», prosegue Pierluigi Chiarelli, «ha sicuramente accesso a quegli atti e allora lo invito a visionarli e a renderli noti all’opinione pubblica».

Perché è chiaro che, nella sentenza, non è stata tenuta in considerazione la testimonianza del notaio Chiarelli, che nel processo alla Sade avrebbe fatto la differenza tra colpa con previsione e dolo eventuale: in parole povere la differenza tra l’aver pensato che la frana del Toc non avrebbe fatto gran danni e l’aver avuto piena consapevolezza che la conseguenza sarebbe stata un disastro. Il notaio Chiarelli ha ripetutamente manifestato ai suoi familiari il grande dispiacere e il disappunto, perché a suo parere la testimonianza da lui resa meritava ben altri riscontri in sede giudiziale.

«Le sentenze», dice Pierluigi Chiarelli, «vengono pronunciate in nome del popolo italiano e il giudice estensore ha l’obbligo preciso di motivare adeguatamente: in quale punto della motivazione delle sentenze dei 3 gradi di giudizio si analizza l’importante testimonianza resa da mio padre per escluderne la rilevanza?».

A quanto pare nemmeno i giornali presenti all’Aquila diedero rilevanza al teste Chiarelli, anche se l’avvocato ricorda un passaggio al telegiornale.

L’altro punto che Pierluigi Chiarelli contesta al procuratore Pavone sta nell’interpretazione del testimone Zambon, il geometra che smentì Chiarelli in merito al discorso fatto dall’ingegnere della Sade Cavinato nello studio del notaio l’8 ottobre 1963, cioè l’oggetto di cui si discute: la frana indotta il giorno successivo.

«Non condivido l’analisi del teste Zambon fatta dal procuratore», dice l’avvocato Chiarelli che di testimoni ne ha ascoltati tantissimi. «Zambon si qualifica come procuratore dei venditori dei terreni del Vajont, ma svolge un’appassionata e non richiesta difesa dell’operato della società acquirente (la Sade). Ci si deve domandare come mai fosse a conoscenza di tutti gli acquisti analoghi fatti dal 1960 e va considerato che, nel rogito, tutte le spese (imposte, notaio e spese tecniche) vengono di prassi pagate dall’acquirente». Quindi: «Con quasi certezza le parcelle del teste Zambon sono state pagate dalla società acquirente per conto della quale egli probabilmente lavorava da anni e si aspettava di farlo anche in futuro».

Questo spiegherebbe anche perché il notaio Chiarelli attese quattro anni prima di raccontare quello che aveva sentito nel suo studio dal delegato Sade l’8 ottobre 1963: «Un notaio che rendesse testimonianze contrarie agli interessi di un geometra e di una società elettrica, entrambi suoi clienti abituali, aveva tutto da perdere e niente da guadagnare; mentre per contro il reddito del tecnico e del dirigente Sade non poteva non influire sull’attendibilità delle loro deposizioni».

Dei tre presenti in quello studio, quindi: «L’unico soggetto veramente imparziale e che aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare, era mio padre», dice Pierluigi Chiarelli.

In conclusione l’avvocato Chiarelli ribadisce che, se sono passati tanti anni prima di raccontare questa vicenda è perché: «Nessun obbligo nè giuridico nè morale incombeva su noi fratelli di sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica le testimonianze di nostro padre, che lui stesso aveva reso nelle sedi opportune avanti il giudice istruttore prima e il tribunale poi». Ma a questo punto, visto che cittadini e studiosi non possono accedere a tutti gli atti: «È forse opportuno che chi come il procuratore della Repubblica può accedervi, riferisca all’opinione pubblica quali riscontri la magistratura ha ritenuto di effettuare per valutare l’attendibilità della testimonianza Chiarelli, oltre ai due brevi verbali di interrogatorio resi pubblici in questi giorni».

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