Vajont, il disastro raccontato dalle prime pagine

BELLUNO.
«È stato un assassinio!». Scritto così, con il punto esclamativo, come una sentenza. A sottolineare un allarme gridato per mesi, ma rimasto inascoltato.
Chi avrebbe il coraggio, oggi, di mandare in stampa un titolo così? Lo ebbe l’Unità, che nell’edizione del 10 ottobre 1963 diede voce a quello che Tina Merlin andava ripetendo da tanto tempo: il monte Toc si stava muovendo, franava e costruire una diga per formare un bacino artificiale ai piedi di quella montagna avrebbe potuto causare una catastrofe. Così è stato. Lei, Tina Merlin, corrispondente dell’Unità, lo aveva capito. Aveva studiato le carte, aveva parlato con la gente, aveva visitato i luoghi, scrivendo pagine di denuncia che sono parte della storia del giornalismo. Oggi gli articoli di Tina Merlin, insieme con quelli di Dino Buzzati, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, che scrissero dell’ “Onda della morte” che travolse Longarone e tutti i paesi della valle nella notte del 9 ottobre di cinquant’anni fa, sono esposti in una mostra che merita una visita. Per capire, per conoscere, per ricordare. Anche per imparare a trattare, con la giusta dose di oggettività, tragedie come quella del Vajont. Un disastro che ha diviso la stampa dell’epoca: ci fu chi parlò subito di responsabilità (L’Unità, ma anche Il Resto del Carlino e Il Secolo di Genova), chi invece si appellò alla violenza della natura,chi parlò di crollo della diga.
Ieri sera, all’inaugurazione della mostra “I giornali del Vajont”, c’erano tante persone che l’onda della morte l’hanno vista. Hanno sentito il rumore della montagna che crollava nel bacino artificiale, il fragore dell’acqua che tracimava dalla diga e si infrangeva su case, strade, prati, travolgendo ogni cosa. Uccidendo migliaia di persone. I giornali dell’epoca hanno raccontato il disastro del Vajont in maniera diversa. Spiccano titoli che parlano di “tremila morti”, fa venire ancora i brividi leggere sulla prima del Corriere d’informazione “Tomba d’acqua”. L’Amico del Popolo scrisse: “Longarone non esiste più”. La mostra, promossa dall’associazione culturale Tina Merlin e allestita all’Archivio di Stato, presenta una carrellata di pagine dense di storia, che sono state raccolte da Mario Battiston (informatore della memoria) nel corso di un anno di ricerche. La sede scelta non è casuale: all’Archivio di Stato si trovano i faldoni del processo che si svolse all’Aquila e che la direttrice Claudia Salmini sta pensando di utilizzare (in parte) per un’esposizione che chiuda l’anno dedicato al cinquantesimo del disastro. La mostra si configura, inoltre, come un omaggio a Tina Merlin, che dimostrò come «lavorare con onestà e professionalità, alla fine, facciano sempre la differenza», ha ricordato la Salmini. «Tina Merlin ha sempre fatto del suo mestiere un impegno di verità», ha aggiunto Adriana Lotto, presidente dell’associazione culturale che porta il nome della giornalista bellunese. «I giornali dell’epoca, però, si divisero. La maggior parte trattò il disastro come una fatalità, come la ribellione della natura nei confronti della violenza inflitta dall’uomo. Anche i giornali, in questo caso, hanno inciso sul ricordo dell’evento. Anche loro ebbero delle responsabilità nel processo di rimozione immediatamente successivo al disastro».
Quei giornali che con le loro prime pagine piene di parole e immagini di una Longarone distrutta, insieme alle prime di alcuni quotidiani esteri, rimarranno esposti fino al 28 giugno (lunedì, martedì e giovedì 8.15-17.30, mercoledì e venerdì 8.15-13.55, ingresso libero).
Guardarli, leggerli, studiarli e capirli permetterà anche di riflettere sulla funzione del giornalismo e sul ruolo delle parole che vengono usate per raccontare un evento.
Alessia Forzin
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