Vajont e L’Aquila Paolini svela i legami tra due tragedie

Erto, l’attore ha ripercorso il dramma di due comunità «La scienza continui a studiare l’analisi del rischio»
Di Alessia Forzin
MARCO PAOLINI SUL VAJONT
MARCO PAOLINI SUL VAJONT

ERTO. C'è un filo sottile, ma resistente che lega la tragedia del Vajont al terremoto de L'Aquila. E non solo perché si tratta di due tragedie che hanno causato morti, dolore, devastazione. Il filo che lega la valle del Longaronese a L'Aquila è fatto di previsioni sbagliate, di tecnici che non hanno valutato il pericolo incombente, di processi. A L'Aquila si è svolto il processo dopo l'ondata di morte, mista ad acqua e fango, che travolse Longarone, Erto, Casso, e tutti i paesi che incontrò. A L'Aquila sono stati processati i membri della commissione Grandi rischi che nel 2009 avevano rassicurato gli aquilani circa l'improbabilità di una forte scossa sismica che invece si verificò, alle 3.32 del 6 aprile.

Il parallelismo fra le due vicende è stato presentato da Marco Paolini venerdì sera a Erto. Dopo un'introduzione a tema scienza sulla figura di Galileo, l'attore si è fatto serio. Quando si parla di morti e distruzione non c'è più spazio per le battute brillanti.

Il cambio di registro è stato evidente anche in platea, con il pubblico che si è ammutolito mentre Paolini dipanava quel filo che lega il disastro del Vajont a quello de L'Aquila. Che sono diversi, perché un terremoto non si può prevedere, mentre quello che è successo la notte del 9 ottobre 1963 era quanto meno intuibile. Ma sono anche molto simili, perché in entrambi i casi la popolazione fu rassicurata. In quello più vicino nel tempo da un pool di autorità, di tecnici, gente esperta del mestiere. In entrambi i casi i rischi che incombevano sulla popolazione sono stati trascurati, mal valutati. E quello che è successo a causa di un errore è una ferita che attraversa la storia dell'Italia intera.

«L'analisi del rischio è un mestiere», ha ricordato Paolini. «E gli scienziati devono continuare a studiare, ad approfondire questo settore. Lo devono fare i giovani, perché la storia del Vajont non tollera più giustificazioni per un disastro che è avvenuto a causa dell'incuria».

Sul filo che unisce il 1963 al 2009 si intreccia un'altra tematica cara alle terre alte di questa provincia e del vicino Friuli: la tutela del territorio. Paolini ha parlato molto anche di Unesco, di patrimonio dell'umanità, della necessità, sempre più impellente, che i giovani tornino a gestire questo territorio che rischia di essere abbandonato. «Cos'è rimasto oggi del carattere puro della gente di montagna?», si è chiesto Paolini. «Ogni generazione va sempre peggio. Si sviluppa il digitale ma regredisce il manuale. E il primo non potrà mai sostituire il secondo». E ancora: «Nelle comunità di montagna i popoli si sono sempre dati “regole”. Se l'Unesco ha dichiarato questo territorio patrimonio dell'umanità, perché non ritrovare l'essenza di quelle regole, che coinvolgano tutte e tre le regioni dell'arco dolomitico?». Si appella al senso di comunità, Paolini, che il tempo ha affievolito. Spetta ai giovani, chiedendo consiglio a chi l'ha vissuto, rispolverarlo.

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