Soldi a palate, ma non bastavano mai
I guadagni e gli affari del divin pittore. Vittima delle maldicenze del Vasari

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alalingua massima fu il Vasari. Lo mise nero su bianco, nelle sue
Vite
. Perché le voci sulla tirchieria del Tiziano giravano da un pezzo, propalate ad arte (ma forse con qualche fondamento di verità) da detrattori e avversari. Il Vasari, arrivato a Venezia nel 1566, aveva scritto che Tiziano era bravissimo, era unico, ma buttava lì i colori, senza saper disegnare bene come Michelangelo.
E poi gli aveva fatto i conti in tasca: Tiziano guadagnava 700 scudi l’anno tra pensioni spagnole e senseria del Sale. Senza contare le commissioni private. Insomma, Tiziano era ricco, ricchissimo, altroché.
Era ricco? C’era un’altra voce, insospettabile, a confermarlo. Ed era proprio l’amicone Pietro Aretino, linguaccia toscana caduta in laguna. L’aveva proprio detta fuori dai denti: «La non poca quantità di denari che M. Tiziano si ritrova, e la pure assai avidità che tien d’accrescerla, causa che egli non dando cura a obligo che si abbia con amico nè a dovere che si convenga a parente, solo a quello con istrana ansia attende, che gli promette gran cose», eccetera. Un «cetera» di malegrazie, s’intende. Indirizzate per lettera a Cosimo I de’ Medici. Ora, è da tener conto che le lettere dell’Aretino erano un vero genere letterario. Avevano la forma di lettere private, ma in realtà erano pubbliche. Circolavano subito in tutta Italia. E lui adulava o diffamava, senza mezze misure. Per la verità, piuttosto diffamava. Tra le righe. Faceva intendere. Avvisava a buon intenditor che avrebbe potuto rivelare qualcosa di compromettente, di imbarazzante. Diciamo pane al pane: ricattava. Bisognava pagare. E i regali, i ducati, in tasca al sublime genio letterario fioccavano. Lui ringraziava subito con adulazioni.
Quella volta l’Aretino se l’era presa con l’amico perché se n’era andato da Venezia senza aver completato un Giovanni dalle Bande Nere per il quale aveva posato e non aveva neanche finito il suo ritratto (in realtà era finito, ma lui pensava che non lo fosse, non avendo proprio capito, povero lui, la forza del colore). E si era vendicato tirando in ballo quella storia dei soldi.
I 300 carri di grano.
Soldi, soldi, soldi. Tiziano ne aveva sempre bisogno, ne aveva fame. In verità per tutta la vita aveva sempre rincorso i committenti. Più erano ricchi, più promettevano, meno scucivano. I Farnese in particolare erano la sua croce. Ma anche Carlo V non scherzava. Tiziano rincorrerà per tutta la vita i 300 carri di grano che gli aveva promesso e che dovevano arrivare dal vicerè di Napoli. Lui scriveva e scriveva, ora alludendo ora dicendogliela sul muso. Quei trecento carri erano diventati una fissa. Cruccio e rovello, li tirava fuori di continuo. All’imperatore scriveva addirittura che era proprio un gran caso che proprio lui, l’imperatore sulle cui terre non tramontava mai il sole, non riuscisse a farsi obbedire dai subalterni. I subalterni, armati di burocrazia, mettevano tutti i bastoni possibili fra le ruote di quei trecento carri. Alla fine sarà Filippo, successore di Carlo, a trasformarli in 1000 ducati d’oro. In ritardo di decenni.
La Battaglia infinita.
Quanto ai ritardi, Tiziano faceva meglio a starsene zitto. Proprio lui che s’era portato a casa dalla Repubblica una senseria da 100 ducati di rendita annui per una bella Battaglia per Palazzo Ducale che nessuno aveva mai visto. La Repubblica insisteva, pressava: «Possibile che Tiziano trovi il tempo per tutti, re e imperatori, ma per la sua Repubblica mai?». Finì in baruffa, tanto che gli revocarono la commissione e gli chiesero indietro 1800 ducati sull’unghia, e poi gli favorirono, massimo affronto, il Pordenone. Che provvidenzialmente (per Tiziano) morì in quattro e quattr’otto a Ferrara (e le solite malelingue dissero che l’aveva fatto avvelenare proprio lui, Tiziano). Dovette mettersi all’opera, e dipingere finalmente quella santa Battaglia. La consegnò 25 anni dopo che gliel’avevano ordinata. Un quarto di secolo.
Tiziano imprenditore.
Certo, Tiziano doveva anche mantenere casa, famiglia e bottega con un bella scolta di aiuti e lavoranti. Di quattrini ne servivano tanti. Però c’erano anche le repliche, e le incisioni. Lui s’era fatto mercante, oltre che artista. Fu il primo ad organizzare la sua attività in modo imprenditoriale, moderno. E se regalava qualche suo dipinto ai grandi principi, più che per generosità lo faceva per promozione, perché sapeva che così li avrebbe legati con debiti di riconoscenza e proficue commissioni. Inoltre, nel giro del gran mondo, tutti avrebbero visto quelle tele, ed altri ancora si sarebbero precipitati a ordinargli ritratti. Complice anche l’Aretino che diffondeva la sua gloria, e che dalle mediazioni traeva di che vivere agiatamente.
Tutti si arricchivano, Tiziano no. Perché, a dispetto dei suoi ricavi dall’arte, e da quelli dalle segherie di Perarolo, e dai commerci di legname, e dagli affari di terreni (tutte cosucce che gestiva in società col fratello Francesco ritornato in Cadore), diceva di non avere mai abbastanza soldi.
Il bosco di Rorbolt.
Il fatto è che ogni pagamento si tirava dietro una grana. Come quella di un grosso quantitativo di legname dal bosco di Rorbolt a San Candido avuto in cambio di un ritratto del re. Insorsero i montanari della Pusteria, dicevano che serviva loro assolutamente per carbone da miniera. Sicché aveva dovuto contrattare e farsi pagare in moneta dagli stessi montanari: il ritratto del re, alla fin fine, lo pagarono loro.
E la pensione dell’imperatore di 200 ducati da riscuotere a Milano, anche quella in cambio di quadri? Non ne riusciva a venir fuori, dovette spedire a Milano il fido figlio Orazio che finì per prendersi, a causa di quei soldi, delle coltellate da uno scultore mezzo delinquente e mezzo scapestrato. Si sa che di soldi per maritare Lavinia ne aveva pochi, e la figlia dovette aspettare cinque anni per poi dirsi soddisfatta (o meglio furono il genero e il suocero Sarcinelli a dichiararsi soddisfatti) di 1200 ducati, una cifra dieci volte più bassa di quella che Tiziano avrebbe dovuto spendere se Lavinia fosse andata in sposa a un nobile veneziano, tra dote e gran feste in barca e palazzo.
La moneta di Carlo V.
Che sia per questa sua cattiva fama che Carlo V gli aveva tirato quel brutto scherzo che fece il giro d’Italia? A Carlo V, di passaggio con la corte a Parma, Tiziano aveva fatto un bel ritratto, poi Federico Gonzaga l’aveva dato a Carlo. E lui cos’aveva fatto? Davanti a un pubblico attento, aveva fatto piovere un ducato (uno) nella mano tesa di Tiziano. E se n’era andato. Era stato Federico a rimediare con 150 ducati dei suoi. Ma quella bizzarria, che forse voleva solo mettere in chiaro l’assoluta imperscrutabile indipendenza dell’imperatore, aveva fatto sussurrare e sorridere. Qualcuno aveva anche riso, e di gusto, sapendo come Tiziano fosse sempre assillato dai soldi.
Le commende per Pomponio.
E che dire degli eterni tira-e-molla per assicurare di che vivere ai figli Orazio e Pomponio, ma soprattutto Pomponio, figlio perditempo a cui piaceva soprattutto l’uccellagione? Se Orazio si era fatto strada con la pittura e con l’organizzazione della bottega del padre, Pomponio proprio non ne voleva sentire di applicarsi. Tiziano lo aveva avviato alla carriera ecclesiastica, che poteva assicurare buone rendite anche senza curar tanto le anime (quelle altrui e soprattutto la propria). Aveva cercato di convincere Paolo III a mollare a Pomponio il beneficio dell’abbazia di San Pietro in Colle a Conegliano, non lungi da castel Roganzuolo che il Tiziano aveva acquisito anche in questo caso in cambio di un dipinto. Promesse mai mantenute, ma sempre fatte balenare per convincere il Tiziano a lavorare. Tanto per ringraziare quel cuore di padre, Pomponio si era pure messo a vendere i suoi dipinti di nascosto. E sì che gli era riuscito di procacciargli dai Gonzaga il beneficio di Santa Maria di Medole, poi passato a un nipote visto che Pomponio «mi par non sia molto inclinato ad essere huomo di Chiesa». Alla chiesa di Medole Tiziano donò una Apparizione di Cristo alla Madonna e che stessero contenti. Chissà cosa aveva combinato quel figlio scapestrato. Spitaleri («Tiziano e le malefatte di Pomponio») sospetta «un losco affare carnale». Per Pomponio Tiziano pensò bene di acquistare da tal Niccolò Talamio sacerdote di Reggio Emilia un beneficio ecclesiastico (leggi: una rendita) a Sant’Andrea del Fabbro (oggi Favaro Veneto) a due passi dalla laguna dove il figlio avrebbe ben potuto sbizzarrirsi nell’uccellagione.
Quanto alla commenda di San Pietro in Colle, sempre promessa dai Farnese e mai concessa (fors’anche per il ritratto al vetriolo nel quale l’animo nero dei Farnese usciva scandalosamente disvelato), ogni speranza naufragò nel 1559 con l’elezione di Pio IV, un Medici, che pensò bene di assegnarla a Carlo Borromeo, suo nipote, non appena rimase libera.
Evasore fiscale.
Altro che soldi ci volevano per coprire tutte quelle spese. Sarà per questo che Tiziano evadeva le tasse. Dichiarava redditi molto più bassi del reale. Tanto da sollevare le rimostranze dei dieci Savi sopra le Decime. Perché, diceva Tiziano, aveva mille e una spesa. Anche il dover affittare a basso prezzo ma a oneste persone i due appartamentini sopra lo studio poteva considerarsi un costo di produzione (o un mancato guadagno), ché l’artista per creare aveva bisogno di tranquillità e, se li avesse lasciti liberi, quelli sarebbero finiti a puttane, e sai che chiasso a tutte le ore. Possedeva, sì, 12 campi a Serravalle, 30 a Conegliano, ed altri svariati campi qui e lì per il Cadore, ma non producevano, a mezzadria, quasi niente. Elencava il Tiziano un po’ di frumento e di miglio, e precisava pure: «... una botte di vino, un porco, due paia di capponi, un paio di galline» (Zorzi, «Il colore e la gloria»). Le segherie di Ansogne erano in affitto, e il prato se lo mangiava ogni anno il Piave. Costava mantenere quel terreno. Erano spese, non entrate. La senseria veneziana da 100 ducati sarebbe andata ad Orazio, le pensioni milanesi (quelle date da Carlo V) arrivavano a singhiozzo e col contagocce, i ricavi dai dipinti e dalle incisioni (per il commercio delle quali Tiziano aveva ottenuto il monopolio dalla Serenissima) erano ben difficili da verificare. Sicché alla fine, sempre lamentandosi, il divin pittore denunciava ben pochi redditi, scatenando le rampogne del fisco veneziano. Su una cosa però aveva ragione da vendere: più che essere lui a pagare, era l’umanità a dovergli essere riconoscente. Per sempre.
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