Rivive il rito tradizionale della mietitura dell’orzo

SAN TOMASO. «Lia, mettiti lì con Mattia e Lorenzo e ascolta quello che ti dicono; loro fanno le “mane”. Devi imparare anche tu, che è importante». Ieri a Celat di San Tomaso, sotto la chiesa, una...

SAN TOMASO. «Lia, mettiti lì con Mattia e Lorenzo e ascolta quello che ti dicono; loro fanno le “mane”. Devi imparare anche tu, che è importante». Ieri a Celat di San Tomaso, sotto la chiesa, una squadra di circa quindici persone ha mietuto l'orzo seminato a fine marzo in un campo di circa 2400 metri quadrati per iniziativa della cooperativa La Fiorita di Cesiomaggiore e del Comune di San Tomaso.

Dario Pianezze ha 71 anni e ha momentaneamente abbandonato il lavoro. Mentre risale il sentiero lo raggiunge una bambina, Lia. In quelle poche battute c'è il passaggio da una generazione all'altra. «È importante», le ha detto Dario.

Il sindaco Moreno De Val e Stefano Sanson de La Fiorita sperano proprio che non si sbagli e che, oltre a fornire un buon raccolto che potrà essere assaggiato anche alla Festa dell'orzo dell’1 e del 2 settembre, quello di ieri sia solo l'inizio di un discorso lungo capace di valorizzare la coltivazione dell'orzo e del territorio in chiave culinaria ed economica. Per Lia, la “sésola” (il falcetto) è ancora troppo pericolosa. Tocca ad altri tagliare le spighe di orzo. «Il tempo giusto per la mietitura è dal 25 luglio ai primi di agosto», dice Gina De Col, che a Costoia aveva coltivato il cereale fino al 1996. «Una volta», come ricorda Margherita Rasa, «questa era un'attività per donne, perché gli uomini erano al lavoro». Oggi, invece, vanno bene tutti.

Danilo Strappazzon, per esempio, non l'aveva mai fatto, ma ha imparato in fretta e le donne gli perdonano anche l'origine “saiòca”. «Dunque», spiega Gina, con Margherita, Wanda, Celestina, «una volta tagliate, le spighe si puliscono dalle erbacce e poi si legano in piccoli fasci detti “mane”. Cinque “mane”, tre sotto e due sopra, formano un “cavàl”. I vari “cavài” venivano poi caricati in spalla e portati nel “tabià”. Qui, dopo essere stati essiccati, si battevano, ma non a caso: “a bòt”, cioè in maniera sincronizzata. Quindi l'orzo veniva vagliato prima con il “drai”, poi con il “van”. Infine portato al mulino per essere pilato, o consumato con latte, minestra o come surrogato del caffè».

Le donne e gli uomini ieri impegnati nella mietitura hanno visto riaffiorare ricordi dolcissimi anche se “faticosi”. Adesso però bisogna guardare avanti perché la coltivazione dell'orzo a San Tomaso e Vallada (dove la mietitura avverrà la prossima settimana) potrebbe essere una risorsa per il futuro del territorio. Chissà che Lia, Fabio, Nicolò, Mattia e Lorenzo, i bimbi protagonisti nella mietitura, un giorno ne raccolgano i frutti.

Gianni Santomaso

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