Quella voce che ancora ci emoziona: la splendida arte di Mario Del Monaco

Il grande tenore moriva 40 anni fa. La carriera, le fatiche, la cura del silenzio e Otello nel destino

Massimo Contiero

Nato a Firenze, città della madre, il 27 luglio 1915, moriva all’ospedale di Mestre il 16 ottobre 1982, quarant’anni fa, Mario Del Monaco: un nome mitico della lirica internazionale, una voce unica per potenza e nitore nella storia del melodramma. Nell’Italia di Tamagno, Caruso, Lauri Volpi, Gigli, di Pertile e Martinelli nati a pochi passi l’uno dall’altro a Montagnana, Del Monaco frequentò la scena mondiale nell’epoca felice in cui il Belpaese vantava, oltre a lui, Giuseppe Di Stefano e Franco Corelli. È stato il solo a interpretare l’Otello di Verdi, ruolo sfiancante come pochi altri, per ben quattrocentoventisette recite, un’identificazione col personaggio che non trova riscontri negli annali.

INCREDIBILI OSTACOLI

Iniziò a cantare nelle chiese e già nel 1929, a quattordici anni, a Pesaro, interpretò Narciso, l’atto unico di Jules Massenet. Ma durante la giovinezza la sua vera passione fu la pittura (ritrovata poi quando si ritirò) e, sempre a Pesaro, si diplomò all’Accademia di Belle Arti. Poi la voglia di cantare si manifestò più nitida verso i diciott’anni. Si iscrisse al Conservatorio pesarese e studiò con il maestro Melocchi, l’unico che poi menzionò tra i suoi insegnanti, perché amava dire di essersi fatto da solo: «La mia è stata una delle carriere più difficili che si possano immaginare. Pensando alla mia voce possente e ai miei trionfi, tutti credono che io abbia avuto una vita tranquilla e fortunata. Invece ho dovuto superare incredibili ostacoli e li ho superati da solo, senza l’aiuto di nessuno. La mia carriera è solo frutto della mia volontà».

Ricordava come tutti, all’epoca dei suoi inizi, volessero imitare Beniamino Gigli, Ferruccio Tagliavini innanzitutto, ma anche Di Stefano. Lui stesso ci provò, ma subito si rese conto che «la voce di Gigli era un violino, la mia era una tromba». Questo suo stile diverso sconcertò il pubblico e dovette lottare per imporsi.

UN SI BEMOLLE IN BUTTERFLY

A scoprirlo, durante il servizio militare, fu il colonnello Ninchi (della famiglia di attori) che impedì anche che partisse per la Russia. Fu poi un si bemolle tenuto lunghissimo in “Addio fiorito asil” che lo fece notare in un’audizione e gli procurò una scrittura per Butterfly con cui debuttò a Milano il 26 aprile 1940.

Vennero anni di guerra e numerosi erano i disagi. Cantò in Rigoletto a Padova dopo aver percorso sessanta chilometri in bicicletta, avendo mangiato solo due uova. Benché lo cercasse la Scala, accettò di cantare in quel teatro solo nel 1949, in un Andrea Chénier con Renata Tebaldi e Fedora Barbieri, commemorazione di Umberto Giordano appena scomparso. Un pubblico strabordante decretò il suo trionfo. Da quel momento i grandi teatri del mondo se lo contesero. Il pubblico lo idolatrava, ma la critica si divideva su quella sua voce così diversa da tutte. Non si era mai data una voce di tenore drammatico con inflessioni baritonali, capace di svettare a squillanti do così impavidamente. Il suo “Esultate” all’inizio di Otello era qualcosa di inaudito.

GLI ACUTI IN AMBULANZA

Un terribile incidente automobilistico nel 1964 sembrò troncare la sua carriera. Confidò a Enzo Biagi che ancora in ambulanza, aveva subito controllato se i suoi acuti fossero a posto. Recuperò grazie ad una volontà ferrea. Disse: «Il mio segreto: tanti sacrifici e la cura del silenzio. La salute delle corde vocali è il silenzio e io difendevo la mia voce con il silenzio. Due giorni prima di ogni recita diventavo muto, non parlavo con nessuno. Se dovevo comunicare, scrivevo biglietti».

Ammise di aver parlato per sei mesi solo sottovoce prima di interpretare un ruolo wagneriano. Era rigorosissimo e si imponeva stili di vita ascetici, diversamente dall’amico Di Stefano. Ebbe una certa rivalità con Maria Callas, ma la loro incisione live di Aida a Città del Messico nel 1951 è memorabile. Di Del Monaco si ascolti la frase finale del III atto “Sacerdote, io resto a te”, non paragonabile ad altre per qualità dell’accento e potenza. In un’altra Aida, all’Arena di Verona, il regista Roberto Rossellini aveva previsto nel primo atto bracieri fumanti che gli causarono una perdita di voce. Voleva lasciare, ma la madre e Toti Dal Monte lo persuasero a proseguire. Come toccasana usò un tè caldo e un bicchierino di whisky. Al termine fu portato a spalle fino al suo albergo dalla folla in delirio.

DI FRONTE ALLA STORIA

Cantò davanti a Kruscev, Tito, l’Imperatore del Giappone. Si lamentava di aver avuto più riconoscimenti ufficiali all’estero che non in Italia, sentendosi tuttavia profondamente italiano e un ambasciatore del nostro Paese nel mondo. Lasciò le scene con Tosca ad Amburgo nel febbraio del 1976.

Visse gli ultimi anni nella sua villa di Lancenigo presso Treviso, dedicandosi all’insegnamento fino alla morte. Tra le molte testimonianze della sua splendida arte, suggeriamo i tre video della RAI di Trovatore, Andrea Chénier e Otello, che fanno apprezzare anche le sue notevoli doti d’attore.

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