Pane, mestiere e fantasia

Olivo Casol è il decano di una famiglia di panificatori
«Mio padre me lo diceva sempre: guarda che il pane non cresce sugli alberi. Lavoro, ci vuole. I tempi sono cambiati, sono cambiate tante cose. Ma questo è un mestiere di fatica: e resta un mestiere di fatica».  Così dice Olivo Casol: decano di una famiglia di panificatori che ha le sue radici nel 1937, quando suo padre aprì il primo forno a Cavarzano. Oggi sono i suoi figli, Luca, Paolo e Giovanni a portare avanti l'attività della famiglia: «Che bisogna alzarsi di notte resta la costante di questo lavoro - afferma Luca - le tecniche che sono state inventate di recente sono dei palliativi: permettono di guadagnare qualcosa in termini di tempo. Ma la sostanza non cambia: il sabato si inizia a lavorare verso mezzanotte e mezzo; gli altri giorni verso le tre di mattina».  Quella di Olivo Casol - così come quella di tutti i panificatori - è la storia di una vita vissuta alla rovescia: mezzo secolo tra il forno e il negozio, dove ancora oggi (con l'occhialino calato sul naso) compare ad assistere ai cambiamenti della città dalla cassa di piazza delle Erbe: «Al giorno d'oggi va molto di moda fare il pane con le ricette - afferma - Ma quello che dà il gusto è la lievitazione; e la mano del fornaio che lo fa. Altrimenti, il pane sarebbe uguale dappertutto. E una cosa è certa: per trovarlo buono bisogna che sia stato fatto con passione».  
Ma lei come l'ha imparato questo mestiere?  
«Eh, come l'ho imparato... Le racconto una cosa: una volta, da giovane, stavo preparando i montasù, che erano dei panini che andavano stesi ad asciugare prima di entrare in forno. Lavoravo ancora con mio papà: lui arriva, butta un occhio sui panini, non mi dice niente e li disfa tutti, ricominciando a impastarli. Perchè erano gelosi, una volta. E le robe bisognava farle a modo loro: ma si stava dietro, e si rubava con l'occhio».  
Si mangia più o meno pane, oggi?  
«Di meno. Ma è anche cambiata la città. Una volta facevamo sette quintali di farina al giorno. Ora tre. Però c'erano le caserme, l'Agosti, realtà grandi: che adesso o non ci sono più, oppure si rivolgono a forni di tipo industriale».  
Anche la maniera di comperare è cambiata, dunque.  
«Sì: fino a qualche anno fa c'era la bella abitudine di andare a comperare il pane ogni giorno. Oggi molti lo comperano per tutta la settimana, e mettono gli ossi in congelatore».  
Dalla sua faccia mi pare di capire che non è proprio una buona abitudine?  
«Secondo me il pane si rovina. Soprattutto quello non condito. Infatti quando viene scongelato e scaldato, dopo bisogna mangiarlo subito».  
Meglio il pane di oggi o quello di una volta?  
«Ora è più curato e fatto meglio».  
Ma allora quelli che ricordano il sapore che oggi non c'è più?  
«E' sempre una questione di tempo. E' vero: il pane fatto sul forno a legna ha un gusto diverso. Ma non è per il forno, è per il tempo. Le spiego: quando si aveva il forno a legna, bisognava caricarlo per tempo, fare fuoco, e poi pulire tutto prima di cominciare a infornare. Con questo sistema si potevano fare solo due infornate alla volta: dopo bisognava riscaldare ancora, pulire di nuovo, ricominciare daccapo insomma. Certo, la legna è aromatica, ma era la lavorazione più lenta: e la pazienza è la migliore amica del pane».  
Però adesso si fa gran parlare di biologico, natura, cereali...  
«Ah, sì. Il pane a lievitazione naturale: lo facciamo anche noi, con il lievito madre, senza il lievito di birra. Per me è quello il gusto vero: il vero pane è più lento».  
Ma ci sono panini che oggi non vanno più?  
«Di tipi ce ne sono stati sempre tanti: sfilatini, montasù, piavette, barloch, mantovane, rosette, spaccatine...ecco, adesso quelli a pasta dura non si riesce più a farli. E' una questione di tecnologia».  
Tipo?  
«Tipo le piavette: i fornai scherzavano, perchè si diceva che dopo la lievitazione questi panini dovevano essere portati in riva al Piave, per ghiacciarli. Così quando venivano infornati, si otteneva una crosta a pasta dura, simile a quella del ferrarese. Oggi non si riesce più a farle, perchè bisognerebbe usare una impastatrice a forcella: che è più lenta, ed è anche fuori norma».  
E i pani nuovi di questi anni?  
«Probabilmente sono quelli fatti con le farine di cereali. Se ne usa di più. Tipo il kamut, o le farine macinate a pietra. Che poi, è tornare alle cose che si facevano una volta».  
E dal punto di vista del pane, cosa è cambiato nella città?  
«L'interazione con altre culture, per esempio. Ci sono molti stranieri, e ognuno ha la propria cultura del pane. Per esempio, ci hanno chiesto di fare le focacce per la Pasqua ortodossa: per noi, è stata una occasione per scoprire altre ricette».  

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi