Moglie, figlie, modelle e regine ecco tutte le donne del Tiziano

Cecilia portata da Perarolo a Venezia fu moglie diligente discreta e silenziosa
Le serate salaci con le cortigiane
Per Tiziano le donne furono più ancoraggio che tempesta: un’ancora di salvezza, un’assicurazione sulla tranquillità della vita, un porto sicuro nel quale rifugiarsi dopo i viaggi nel gran mondo. Non passioni, ma affetti. Non le sfrenatezze di un Pietro Aretino, e nemmeno le allegre baldorie di un Sansovino, amici cari di gran cervello e gran arte che pur gli riempivano la casa di cortigiane. Alla faccia della moglie. Non si conoscono sfrenatezze né frenesie del Tiziano. Chissà se anche il divin pittore ebbe gran storie sentimentali. In ogni caso non lo diede mai a vedere. Qualche chiacchiera, quella sì, per questa o quella modella, niente di più.


Le donne del Tiziano sono madri e figlie. Sono mogli. Servizievoli, pazienti, modeste. Sì, sono anche cortigiane che fanno compagnia alla compagnia. Lui forse le sbaciucchia un po’ ma non risulta proprio che allunghi le mani. E poi sono le committenti, ritratte talvolta nella loro nudità fisica, come la Bella di Urbino, sempre però nella loro nudità spirituale. Sono anche le modelle, che il Tiziano aveva disponibili in abbondanza, ma sulle quali mantiene sempre una professionalissima riservatezza.


La madre, intanto. Lucia era una domestica, maritata a un Gregorio Vecellio di famiglia notabile fin dal Duecento. Fu probabilmente tutto merito della mamma se Tiziano diventò il Tiziano. Perché fu lei ad insistere in famiglia per mandarlo a Venezia insieme al fratello Francesco. Si dice avesse notato in lui la vocazione, perché il bambino s’accaniva a far schizzi sui muri. Tiziano le fu riconoscente. Almeno nel ricordo, s’intende. Quando salì in Cadore a salutare il vecchio padre prima che morisse, andò anche a Cortina a pregare sulla sua tomba.


L’altra donna della sua vita, Cecilia Soldano, se l’era portata a Venezia da Perarolo dove la famiglia Vecellio aveva due segherie ad Ansogne, e dove il padre di lei, Alvise, faceva il barbiere. Barbiere cioè anche medico, cavadenti, cavasangue, aggiustaossi. Quando la portò via non si parlò di matrimonio, e neppure di dote. La sposò solo dopo. Molto dopo. Dopo che erano nati i primi due figli, Orazio e Pomponio. La descrivono «bella, bionda, solida e robusta» (Alvise Zorzi, «Il colore e la gloria») ma anche sparagnina come lui, da buona montanara. E discreta, silenziosa, ubbidiente. Primi due parti a rischio: al terzo muore dopo aver dato alla luce Lavinia, alla quale Tiziano resterà sempre affezionatissimo. Tanto discreta era quella moglie (e tanto discreto era lui) che solo alla sua morte molti scoprono che esisteva, che Tiziano era sposato. Eppure il matrimonio è del 1525 (ma Cecilia era già a Venezia da parecchi anni), la morte del 1531. Una presenza silenziosa, la sua. Tiziano non la portava alle innumerevoli occasioni e feste pubbliche e private di cui era piena Venezia e alle quali talvolta anche l’artista partecipava.


Alla scomparsa di Cecilia scende a Venezia la sorella Orsola ad accudire i tre figli piccoli rimasti soli col grande Tiziano. Ci restò per vent’anni, fino alla morte avvenuta nel 1550. Anche lei schiva, silenziosa, efficiente, donna tutta casa e famiglia, votata con assoluta dedizione al famoso fratello.


Quanto a Lavinia, il Tiziano la maritò a un nobile di provincia, Cornelio Sarcinelli. Per il matrimonio i due promessi sposi dovranno attendere cinque anni, perché Tiziano lamentava di non avere denari bastanti per la dote. Alla fine la maritò per 1200 ducati d’oro, una cifra molto più bassa di quella che avrebbe dovuto pagare se l’avesse sposata a un qualche giovane veneziano di buona famiglia. Tristissima, quasi fosse segnata, la sorte di Lavinia che, dopo sei anni di matrimonio, e cinque figli, morì mettendo alla luce il sesto. Di parto, com’era morta la madre.


Nel frattempo Tiziano aveva avuto una figlia naturale da una domestica, negli anni Quaranta, Emilia. Che non sposò, ma alla quale promise una buona dote. Lei ne fu riconoscente, uscì di scena e, quando a sua volta ebbe una figlia nel 1573, la battezzò a San Stin col nome di Vecellia.


Ma nelle case del Tiziano, soprattutto in quella del Biri grando in riva alla laguna nord, entrarono frequentemente alcune delle undicimila (11.000) prostitute censite a Venezia in quegli anni. Quelle di casa Tiziano appartenevano, beninteso, alla «classe alta» della stimata categoria, quella delle cortigiane che non mettevano a servizio solo il corpo ma anche l’intelletto. Prostitute d’alto bordo, grandi amiche dell’Aretino, compare e compagno di baldorie allegre e di salaci serate. «Raffinate conversatrici, circondate da artisti, letterati e musicisti», le definisce Alvise Zorzi, «magari letterate loro stesse». Come le famose Veronica Franco, la Zaffetta (Angela Del Moro), la Tullia d’Aragona, la Pierina Riccia. Che componevano in versi e in prosa, che facevano arguta compagnia. Alcune di loro erano chiamate «le Aretine» per le frequentazioni assidue con il Pietro. Che amava circondarsi di belle donne. Una di queste, e non una cortigiana, la Caterina Sandella, fece girare la testa all’Aretino, ne diventò amante fissa ma anche governante e madre di due figlie (chiamate Adria e Austria), ritratta dal Tiziano e anche dal Tintoretto (in mostra a Pieve di Cadore). Lei era di Valstagna, di buona condizione economica, ed entrò al suo servizio come massara. Dall’Aretino ebbe due figli ma lui non la volle sposare, preferendo procurarle un altro marito, Bortolo Sandelli (di qui il nome di «Sandella»).


Tiziano non aveva certo bisogno di correr dietro alle donne, erano loro a correr dietro a lui. Per farsi ritrarre, per prestare le loro forme e le loro bellezze allo straordinario pennello dell’artista, sapevano che poi quelle fattezze avrebbero fatto il giro del mondo. Così Violante, figlia di Jacopo Palma, diventa la dea Flora e l’amor profano. Si dirà che quella bellezza fosse il primo amore del Tiziano. Si chiacchierò a lungo su quell’altra eccezionale bellezza senza nome, che Tiziano circondò di assoluto riserbo e che diventò una Venere sensualissima. La chiamarono la Bella, la dissero un’amata del Tiziano. Finì ad Urbino e diventò così la Bella di Urbino. Quasi certamente era Eleonora Gonzaga, la duchessa moglie di Francesco Maria della Rovere, che attraverso il dipinto voleva prendersi «una segreta rivalsa spirituale nei confronti della carnalità del marito» (Enrico Spitaleri, «Tiziano e le malefatte del figlio Pomponio»).


Non mancano, tra le modelle, Cecilia e Lavinia, le due donne più vicine al Tiziano. Cecilia posa per Santa Caterina (un dipinto per i Gonzaga), Lavinia presta il suo volto in molte occasioni.


E passiamo alle gran dame, alle contesse duchesse e regine. Cioè alle committenti. Incontriamo per prima Laura Dianti, amante di Alfonso d’Este, il primo principe committente del Tiziano, ritratta con una «complicata acconciatura» e con «una toilette altrettanto complicata. Insieme a lei aveva posato un paggetto africano» (Alvise Zorzi). Poi Isabella d’Este, impareggiabile collezionista e mecenate che riempie di opere d’arte Palazzo Te a Mantova. Lei nel 1535 gli chiede di essere ritratta, epperò ringiovanita, e gli dà un antico ritratto che è già una copia di un altro. Lui ce la mette tutta e lei ne resta estasiata «anche se dubitiamo di essere mai stata, nell’età in cui il maestro ci ha rappresentata, bella come lui ci ha dipinto». Chissà com’era, in realtà. Servì anche, e molto, per farsi commissionare un altro ritratto, questa volta della figlia di Isabella (Eleonora appunto) che finì sulla tela insieme al suo cagnolino e a un orologio di marca tedesca. Da un’Isabella a un’altra: Isabella di Portogallo, moglie di Carlo V il rey catòlico grandissimo estimatore di Tiziano. Tanto da portarsi nel suo ritiro volontario il suo Trionfo della Santissimia Trinità, l’Ecce homo e l’Addolorata, per prepararsi cristianamente alla morte. Dissero che morì con gli occhi fissi sul primo.

Il più potente tra i ritratti di donne è però probabilmente quello di Maria d’Ungheria, sorella di Carlo, espressione vivente del potere supremo, ma anche della sua angosciosa solitudine, così come di potere assoluto dovevano parlare i grandi quadri sul soffitto destinati a guardare, terribili e fulminanti, i visitatori del castello di Binche, in Fiandra, dove la regina teneva d’estate corte e giustizia, Furie pronte ad avventarsi contro chi si ribellasse all’autorità investita da Dio.


Che differenza tra queste gran dame austere (più raramente audaci e sensuali) e le altre donne «familiari» del Tiziano, anche quando finissero ritratte. Dopo le frequentazioni (certo allettanti ma anche faticosissime) con i potenti del mondo, Tiziano si rinfrancava alla fine, più che nelle braccia di amanti, nella tranquilla oasi delle «sue» servizievoli e modeste donne di casa.

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi