Mauro e Bubu, vivere in verticaleDentro un «rock’n road movie»

Dieci capolavori del cinema di montagna. Si inizia con «Vertical miles» di Cristian Furlan. In scena Mauro “Bubu” Bole e Mauro Corona
Le Tre Cime di Lavaredo
Le Tre Cime di Lavaredo
Sono quarantacinque minuti di pellicola da vivere, non da guardare soltanto. «Vertical miles» di Cristian Furlan, raccoglie la chiacchierata nata in un viaggio in macchina tra Mauro Bubu Bole e Mauro Corona. Una stravagante, e irripetibile, occasione per mettere a confronto due modi diversi di vivere l’alpinismo e la sua filosofia.

 Da una parte il giovane Bubu Bole, classe 1968, dall’altro lo “scafato” Corona, classe 1950, ripresi da due telecamere fissate dentro l’abitacolo. Domande e risposte anche sui limiti e le paure degli uomini che sfidano la montagna e si sfidano. Con garbo, ma non troppo. Perché qualche stilettata se la tirano. Spiriti liberi a caccia di emozioni, Bole e Corona nelle loro esperienze così diverse dialogano amichevolmente seguendo il filo improvvisato del discorso e raccontando la loro vita impegnata in imprese coraggiose. Un percorso costruttivo per loro e anche per chi li ascolta al di là del video. Percorsi di alpinismo, che per loro, mortali non comuni, sono percorsi di vita. Dice Bubu: «La mia vita? Donne e magnesio». Che è poi il nome della sua via aperta in Pakistan. E l’altro Mauro, di ritorno: «Ma se proprio dovessi scegliere?». Lui, Corona, sceglierebbe le donne. Bubu, invece, nicchia.


 E mentre chiacchierano di montagna, ecco le immagini delle scalate delle quali parlano. La prima in arrampicata libera della via Couzy alla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, la Salathè su El Capitan in California, le prime assolute di Cruz del Sur in Perù, Women and chalk (donne e magnesio) in Pakistan. Sono vie di difficoltà estrema, che Cristian Furlan riprende con immagini da brivido. Dietro l’eroe che arrampica, non sai bene se ragno o lucertola, c’è l’altro protagonista, Furlan, e i suoi cameramen. Viene direttamente dall’alpinismo, e ad un certo punto della vita decide di unire la passione per l’avventura con l’altra sua grande passione, il lavoro di cineoperatore. La Barcodefilms nasce così nel 1995, con l’obiettivo proclamato di specializzarsi nelle produzioni sportive spettacolari e nelle riprese in condizioni estreme. Nato in Argentina nel 1969, il regista vive e lavora a Trieste.


 Mettere insieme Mauro Corona con l’altro Mauro, Bubu Bole appunto, non poteva che produrre scintille. Sarà per questo che «Vertical miles» l’hanno anche definito un «Rock’n road movie». E’ un viaggio, naturalmente, fatto per giunta in macchina mentre i due vanno ad arrampicare insieme. Il viaggio è per antonomasia la dimensione della scoperta, dell’esplorazione. Scoperta del mondo, ma soprattutto scoperta di se stessi, dei propri limiti (delle proprie paure, dei propri coraggi) e dell’altro con il quale ti accompagni.


 Vecchio e giovane a confronto, in cui paradossalmente la parte del «vecchio» la fa Corona che in fondo, così vecchio non è. Ce la mette tutta per fare il vecchio, perché il vecchio è sempre saggio. Ma lui, più che saggio è un po’ sregolato, e non può mica venir meno alla propria immagine (e autoimmagine). Però lui la parte del saggio la fa, pronto a «provocare» e «contestare» una certa filosofia dell’alpinismo. Chiacchierata simpatica, s’intende, quella tra i due Mauri. Nel film, più che la parete da scalare insieme, ad essere focalizzati sono i racconti che si fanno a vicenda, le opinioni che si scambiano, e le immagini che intanto scorrono, sicché la conversazione è il pretesto per raccontare in realtà le imprese più spettacolari di Bubu Bole.


 Ci sono spezzoni di scalata a quattro zampe che fanno venire i brividi. Va su di brutto, accarezzando la roccia, lisciandola, pensandola. E poi supera di getto tetti da 8b. Lo vedi aggrappato con le unghie sull’abisso, che sotto saranno mille metri (il fondo si indovina appena), appeso lì mentre la forza di gravità si fa leggera, e poi si dà una spinta di braccia e di gambe e si proietta sopra il tetto. In vetta. «Duro, duro», ansima.


 Il film, uscito da Vivalda nel 2002, andò subito a ruba. Per la qualità dell’opera, ma anche per la personalità dei protagonisti, e per questo intendere la scalata non come una tensione verso la meta, ma come un viaggio di conoscenza (e di autoconoscenza). Una sfida con se stessi, ma soprattutto un modo per immergersi nella dimensione della solitudine e della natura. Se un tempo, per Corona, l’alpinismo era passione pura, e pochi parlavano delle loro imprese (e l’alpinismo era intriso di segretezza), oggi, accusa lo scultore-scrittore-alpinista, non è più un’impresa, è un’opportunità per farsi notorietà. Grandi imprese sì, ma con le telecamere al seguito. Niente di male, pare dire Corona, basta dirlo. I soldi? certo che servono, però vale di più un altro movente: farsi pubblicità per uscire dall’oblio. Anche il «vecchio» spirito dell’alpinismo ha dovuto fare i conti con il nuovo mondo dominato dalla competizione e dall’ansia di successo,

 Bubu riconosce, in buona sostanza, che il marketing è necessario. Almeno per chi vive l’alpinismo da professionista. Di qualcosa bisogna pur vivere. E l’alpinista non è comunque un calciatore messo all’asta a suon di milioni di euro. Del resto, anche Corona ne ha avuto bisogno, per i suoi libri. Colpo basso? Invito alla coerenza? Agli amici lo si può anche dire. Bonariamente, s’intende. Basta evitare eccessi e retorica.

 E infatti il film, dopo aver macinato chilometri e chiacchiere in macchina, si chiude così: loro arrivano alla base della palestra di Erto, corda in spalla. Guardano sù. Mauro fa all’altro Mauro: «Me son scolà mezza bottiglia di whisky. Pòrteme casa che l’è mejo». Finisce con una rinuncia. Che è una conquista. Erano andati per arrampicare, in realtà l’importante era il viaggio, la scoperta di sè.

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