Le lunghe ore di De Bona nella dolina «Vedevo il cielo e pensavo a casa mia»

il giorno dopo
«Son cascà dentro na dolina sot de Cavallo e Lastè. Son vivo e stae ben». Il messaggino in dialetto di Giorgio De Bona è arrivato alle 12.10 di domenica sul telefonino della moglie Annalisa, che già sapeva del salvataggio dello scialpinista di famiglia. Gli uomini di Cnsas, Sagf e 118 l’avevano tirato fuori da quella voragine profonda una trentina di metri e trasportato all’ospedale San Martino. Quando il cellulare del 47enne alpagoto ha cominciato a prendere, è partita una raffica di sms, alcuni dei quali personali e romantici. Ieri pomeriggio De Bona era ancora ricoverato: questione di ore per la dimissione con un ematoma alla spalla e diverse contusioni.
Com’è finito nella buca, col rischio di non uscirne?
«Ho avuto un’illusione ottica stavo tornando a casa, perché avevo promesso alla mia signora e ai nostri figli di rientrare per pranzo e sono stato ingannato dalla neve. Dietro un cumulo, c’era uno strato di roccia e non ho visto quella fossa».
Sapeva che c’era? Nessuna speranza di evitarla?
«Conosco bene le montagne ed ero a conoscenza dell’esistenza di questa dolina, purtroppo non l’ho proprio vista e non c’è stato il tempo materiale, per cercare di scansarla. Sono stato anche fortunato, perché sono caduto di testa».
Se fosse atterrato in piedi, cosa sarebbe successo?
«Avrei potuto riportare delle conseguenze per colpa degli sci oppure procurarmi una distorsione alle caviglie, con tutto quello che può significare. Invece ho avuto la possibilità di girarmi, una volta capito che non c’era niente di rotto».
La prima cosa che le è venuta in mente, dopo un volo di una trentina di metri?
«Mi sono detto che non doveva succedermi una cosa del genere e mi sono fatto un po’ di coraggio, anche se laggiù non vedevo niente. Ero al buio».
Ha avuto paura?
«Paura no, piuttosto una gran voglia di cercare di risalire il più possibile, per aumentare le possibilità di essere ritrovato. Ci ho sempre sperato, anche se un po’ mi sono sentito come Alfredino, il bimbo morto nel pozzo di Vermicino».
Più l’istinto di sopravvivere e tornare in famiglia?
«Mi sono detto che non poteva finire così, anche per Annalisa e i bambini. Ho provato un senso di colpa, perché ero da solo e non c’era nessuno che potesse allertare i soccorsi, visto che il cellulare non prendeva e neanche l’Arva era utile. Più che gridare, non potevo fare. Ho cercato di risalire e ci sono riuscito per una decina di metri. Ho visto un po’ di luce».
Come è sopravvissuto per tutta la prima giornata, la notte e parte della seconda?
«Non avevo più niente da mangiare e da bere e mi sono arrangiato con delle neve. Per il resto, non ho mai smesso di muovermi, perché in caso contrario avrei rischiato l’ipotermia e non potevo addormentarmi, perché non mi sarei accorto di un eventuale sprofondamento. Il primo giorno ho visto tre volte l’elicottero, ma senza poter comunicare. Ho provato un senso di frustrazione, ma non potevo mollare».
È stata dura la notte?
«Molto. Ho visto la luna sopra di me e il passaggio delle costellazioni. Guardando il cielo dell’Alpago, mi sembrava di vedere gli occhi di mia moglie e questo mi ha aiutato. Ho pensato a lei, ai ragazzi e ai miei genitori. Dovevo cercare di salvarmi, soprattutto per loro».
Quando invece del velivolo ha visto il soccorritore, che è sceso a prenderla?
«Mi ha chiesto come stavo e gli ho risposto “bene”. Siamo risaliti con il verricello e non smetterò mai di ringraziare lui e tutti i colleghi, che hanno fatto davvero l’impossibile per portarmi in salvo».
Le è passata la voglia di fare scialpinismo da solo?
«Credo di sì. I miei sci dovrebbero essere rimasti in fondo al buco. Mi piacerebbe riaverli, ma solo per farci un altarino. Non è giusto far soffrire i miei familiari». —
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