L'arte dello scultore-contadino

La passione lo ha portato a cimentarsi in diverse tecniche utilizzando non solo il legno ma anche pietra e creta. Da 17 anni Mario Scalco trae ispirazione per le sue opere dalla quotidianità
L'arte calata nella vita di tutti i giorni. L'ispirazione e le idee tratte dalla quotidianità e dal contatto con la natura, ma soprattutto dal proprio percorso di vita.  Mario Scalco ha iniziato a scolpire 17 anni fa e non si è più fermato. Una passione che lo ha portato a cimentarsi in diverse tecniche, utilizzando per le sue sculture non solo il legno, ma anche pietra e creta, e perfino cioccolato e polistirolo.  Mentre parliamo con lui ci troviamo alla Cooperativa di Cirvoi, a Castion, a pochi metri dall'abitazione di Scalco.  Un luogo non casuale, visto che l'arredamento del locale è stato realizzato dall'artista bellunese.  Due mesi di inteso lavoro per arrivare al risultato finale: bordature alle pareti, travature e tramezzi, panche. Le prime sembrano scolpite nella pietra e i secondi fatti di legno. Chi li guarda non penserebbe mai che sono costruiti con il polistirolo. 


Come sono nati l'amore per la scultura e la tua storia artistica?
«Osservando il simposio di scultura San Martino. Mi attraeva moltissimo vedere gli artisti all'opera. Li guardavo pensando che ciò che riuscivano a estrapolare dal legno fosse eccezionale. Per 4-5 anni ho seguito le creazioni altrui. E nel 1994 ho iniziato a scolpire: con calma, anche sbagliando. Ma a forza di errori qualcosa di interessante è emerso. Poi ho continuato con la sperimentazione, nella ricerca costante di nuove forme». 


Da dove trai ispirazione? Quali sono i soggetti che preferisci?
«Qui a Cirvoi ho un'azienda agricola. Metto insieme questo lavoro con quello di scultore. Uno o l'altro da solo mi farebbero vivacchiare. Uniti danno qualcosa in più. E sono davvero un bel connubio. Lavorando tutto il giorno a contatto con la terra raggiungo quell'equilibrio e quella serenità che fanno sì che le idee per scolpire nascano "più tranquille e umane", e non da "tensioni strane". La mia arte è immersa nella quotidianità. Ed è così che secondo me dev'essere: l'esperienza artistica è qualcosa di "normale", da non racchiudere tra le pareti di un museo o di una mostra. Trovo poi ispirazione soprattutto dalla mia vita e dal mio percorso. E io lavoro quasi sempre su commissione: bisogna capire cosa vuole il cliente, valutare il tutto con un'indagine e solo dopo arriva il prodotto».  


C'è un'opera a cui ti senti più legato? E sono parecchie le tue sculture sparse sul territorio.
«Forse "L'uomo che esce dal suo buio", che ho presentato all'ex tempore del 2000. Un uomo che sfonda una parete nera: rappresentazione molto intensa, simbolo di un momento della vita che, bene o male, tutti prima o poi passano. Per quanto riguarda le mie opere in provincia, ce ne sono un po' dappertutto, dal villaggio indiano allo zoo didattico a Frontin, al ristorante "Nuova busa del tor". O il presepio nel sagrato della chiesa di Castion. Sculture realizzate con il gruppo "Officine informali", nato nel 2005, che raccoglie sette artisti bellunesi. Abbiamo portato avanti tante iniziative: dalle lezioni nelle scuole alle manifestazioni per bambini e anziani. Per il momento il gruppo non ha una vera e propria sede. Speriamo di trovare spazio nei locali della neonata Pro Loco di Castion. Alcuni anni fa avevamo fatto richiesta per poter avere due aule per una scuola permanente, ma le istituzioni sono poco disponibili». 


A questo proposito, come è visto a Belluno il ruolo dell'artista? È riconosciuto?
«Belluno "riceve" lo scultore nel periodo dell'ex tempore di San Martino. In quei giorni ti salutano tutti, anche le persone che non vorresti. Passato questo si finisce un po' nell'ombra. C'è chi riconosce la funzione dell'artista, ma molti tendono a farlo passare per il classico "personaggio particolare". Ci saranno gli artisti "strani", ma non vale sempre la regola "genio e sregolatezza". Sia ben inteso, io ringrazio infinitamente l'ex tempore, se non ci fosse stata non avrei mai scolpito. Quello che rattrista un po' sono certi pregiudizi: ci sono le persone che guardano le opere, rimangono a bocca aperta, ma non ti chiedono niente sul lavoro. C'è chi invece vorrebbe acquistarle, ma non riconosce il valore e lo confonde con quello di oggetti più commerciali. Il problema è che non c'è una vera conoscenza dell'impegno che sta dietro alla realizzazione: non sono solo quattro colpi di motosega». 


Un po' di delusione, quindi...
«Sì, si può dire così. Poco riconoscimento e soddisfazione. Soprattutto da parte delle istituzioni, che invece dovrebbero essere le prime a incentivare. In periodi di crisi le cose peggiorano. È triste vedere che, a causa della troppa burocrazia, molte idee belle non possono essere realizzate. A volte basta qualcosa di semplice, un briciolo in più, quel "colpo di grazia", che ripagherebbero moltissimo noi e il nostro territorio».

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